Il copione del potere è fatto di relazione e coercizione. Tracciare una verosimile teoria del potere in carcere  —  distinguendo tra la concezione formalista della legge e l’applicazione empirica della stessa  —  è stato il proposito del secondo incontro del ciclo seminariale “Leggere de Waal a Rebibbia. (Qui l’incontro zeroqui il primo incontro).

Come viene agito concretamente il potere nel suo esercizio quotidiano in carcere? Quali sono le logiche trasversali che vivono dentro la verticalità del potere in un luogo fortemente gerarchizzato? In cosa consiste il controverso rapporto tra persone detenute e agenti di polizia penitenziaria, nonché la tensione e, spesso, la frizione tra norma e consuetudine? 

«La persona che agisce il potere è consapevole di non poter esercitare un altro tipo di comportamento», è quanto dice L.Z.* in apertura.

La discussione si è focalizzata sulla sensazione di frustrazione che nasce in risposta a ciò che viene percepito come prevaricazione e sopruso. Secondo L.Z.*, l’agire un atteggiamento prevaricatore «è molto più frequente negli assistenti piuttosto che negli ufficiali». In seguito a questa affermazione, si sono susseguiti tra i detenuti racconti, a tratti sovrapposti, tenuti coerentemente insieme da un filo: la necessità di escogitare stratagemmi per creare uno spiraglio comunicativo, al fine di eludere l’applicazione ferrea del regolamento penitenziario.  

Per parlare della burocratizzazione interna e della discrezionalità o addirittura arbitrarietà dell’applicazione delle regole da parte dell’amministrazione, P.S. ha definito le varie sezioni carcerarie come «monarchie feudali», specificando che alcuni ambiti della socialità vengono messi particolarmente in crisi, qualora «i detenuti non si sottomettono al sistema feudale del carcere, soprattutto se si tratta di rapporti con le famiglie».  

È F.F.* a riportare un esempio pratico della sua quotidianità, raccontandoci un episodio che lo ha visto direttamente coinvolto: in seguito a uno screzio in cui gli aveva intimato di non parlare, un agente gli avrebbe fatto rapporto. Ci racconta di avergli risposto «mi hanno tolto la libertà, non la parola», per poi spiegarci l’atteggiamento ambivalente che, come detenuti, riscontrano nell’amministrazione penitenziaria: da un lato il sospetto, dall’altro la fiducia. «Le guardie che puntano sulla responsabilizzazione dei detenuti riescono a ottenere risultati, al contrario chi non lo fa peggiora sia i rapporti che la condotta». 

Ma cosa accade quando individui particolarmente sospettosi diventano predominanti nelle relazioni all’interno della comunità?

Le persone più aggressive e competitive tendono a infettate la comunità, perché limitano chi tendenzialmente è portato in maniera spontanea alla cooperazione e che inevitabilmente assume il ruolo della vittima. In questa chiave di lettura, il carcere non può che presentarsi come un contesto patogeno che produce malessere. Tendenza tipica anche nelle periferie, rispetto alle quali L.F.* dice: «cosa può diventare un agglomerato urbano che ospita solo chi proviene da contesti di sofferenza sociale?».  

Rispetto al problema del pregiudizio, G.P.* ci dice che «il carcere è per eccellenza il luogo del sospetto». In carcere il sospetto raggiunge livelli così alti da inficiare anche il rapporto tra i detenuti e il medico di reparto, non fanno eccezione nemmeno le figure di educatori e psicologi. Secondo A.S.* «il sospetto nasce dal pregiudizio». Eppure, come sottolineato da Vereni, «il pregiudizio è il valore base delle interazioni sociali, perché rende possibile il riconoscimento» e scrive la stessa «sceneggiatura del carcere». Ognuno è anche la parte che interpreta. E non è possibile metter mano alla sceneggiatura e riscriverla, finché le parti non si accorgono dei ruoli che meccanicamente recitano.



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