Lo scorso 18 aprile ha avuto inizio il seminario “Leggere de Waal a Rebibbia”.
Al primo incontro di presentazione erano presenti dodici persone, detenute nei reparti di Media Sicurezza del carcere di Rebibbia-Nuovo Complesso. A partire dalla prossima lezione, a questo gruppo di persone detenute si aggiungeranno altre tre persone dal reparto Media Sicurezza e quindici detenute nel reparto di Alta Sicurezza.

Il primo incontro, introdotto e guidato dal professor Pietro Vereni, ha delineato le modalità di svolgimento del progetto e gli obiettivi ultimi della ricerca, riportandoli a due nuclei tematici principali: discutere e comprendere tra la popolazione detenuta dapprima il senso della giustizia, poi quello di compassione.

Il canale seminariale si addice particolarmente con il processo di semina che questo lavoro vuole svolgere, nel tentativo di raccogliere materiale consapevole e discusso rispetto al senso della giustizia nelle persone che scontano una condanna penale. Come già anticipato nel precedente articolo, verrà discusso e commentato, criticato o semplicemente utilizzato come mezzo di provocazione il saggio di Frans de Waal Il bonobo e l’ateo.

Fin dai primi momenti di presentazione si è riconosciuto nella socialità, e dunque nella relazione con gli altri essere umani, l’ambiente naturale per il genere umano. Le quattro fondamentali tendenze relazionali – cooperazione, competizione, reciprocità e ripicca o vendetta – che strutturano e differenziano le varie interazioni,  hanno suscitato l’interesse e le osservazioni delle persone detenute, poste di fronte ad un quesito di fondo: perché con alcune persone prediligiamo e scegliamo ad esempio di entrare in contatto tramite cooperazione, mentre rispetto ad altre ci avvaliamo della ripicca?
Non è stato soltanto questo input a muovere i loro interventi, quanto piuttosto l’affermazione, a partire da quanto sostenuto da de Waal ne Il bonobo e l’ateo, che esiste un senso innato di giustizia e compassione nei primati e che dunque il senso di giustizia sia precedente alla nostra umanità.

A questo proposito A.C.*  è intervenuto asserendo che il senso di giustizia difficilmente potrà essere considerato «istinto naturale, dipende invece dall’educazione e dalle situazioni con cui si entra in contatto, perché come il linguaggio serve a delineare il confine tra il noi e il voi».
Se è vero che il dibattito ha ruotato incessantemente, avvalendosi di spunti diversi, attorno a quale sia il senso di giustizia delle persone detenute, è altrettanto vero che si è arricchito di considerazioni di importanza centrale per il lavoro di ricerca, come ad esempio quale ruolo abbia giocato, nei trascorsi di ognuna delle persone recluse, quello che G.A.** ha chiamato «contaminazione», riferendosi agli scambi tra sistemi valoriali differenti che in qualche modo «ci porta tutti allo stesso punto di partenza, pur partendo da uno status economico o culturale più elevato».
E proprio al termine del primo incontro, A.C. ha introdotto quello che potrebbe diventare uno degli argomenti di punta del seminario: la «sensazione di sottomissione» che scaturisce dalla frizione tra il senso di giustizia personale e le regole imposte dall’esterno. Così come il mutamento nella percezione pubblica del reato, secondo la quale oggi riusciamo a concepire come crimine azioni o atti che fino a qualche decennio fa erano invece tollerati e in qualche modo considerati parte integrante della rete sociale.

*persona detenuta all’interno del Carcere di Rebibbia-Nuovo Complesso
**persona detenuta all’interno del Carcere di Rebibbia-Nuovo Complesso


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