«L’antropologia è accorgersi»: per capire il diverso ci si deve prima accorgere di sé. Il primo effettivo incontro del seminario “Leggere de Waal a Rebibbia” ha preso le mosse dalla questione del riconoscimento, inteso appunto come accorgimento: rendersi conto dell’altro a partire dalle proprie caratteristiche, che diventano, dentro e attraverso l’incontro, diversità.  

L’occasione del dibattito, a partire dalla prima lettura de Il bonobo e l’ateo, è stata la riflessione attorno al Giardino delle delizie di Bosch e all’Albero della conoscenza del Bene e del Male riguardo al peccato originale. È qui che la colpa – o più in generale la colpevolezza – scaturiscono dalla consapevolezza acquisita in un semplice gesto di trasgressione e conoscenza.  

È nello scoprirsi nudi che Adamo ed Eva cominciano a provare vergogna e quindi pudore, a sentire l’urgenza di coprire o nascondere la loro vulnerabilità. Proprio nella fase iniziale della lezione, Vereni ha gettato le basi del confronto: «per diventare umani bisogna accorgersi», rendersi conto delle proprie fragilità, vulnerabilità, miserie. E per farlo è indispensabile esporsi, sporgersi e imparare a proiettarsi, facendo del tempo un’occupazione sensata.  

Abbiamo cercato di riportare a questi iniziali input alcuni dei problemi strutturali della pena detentiva, tra questi l’ergastolo ostativo, all’interno del quale il futuro cessa qualsiasi progettualità. Come conferma anche L.F.*: «chi è condannato all’ergastolo ostativo perde la possibilità di progettare». Non esiste un tempo che non abbia bisogno di reciprocità, della gratuità del darsi, e allora se l’ergastolo ostativo scade nell’essere mera vendetta non può che tradursi nella sottrazione di tempo e capacità progettuale.  

Possiamo quindi provare ad avvallare la tesi di de Waal e considerare la giustizia una forma innata nell’uomo, ricercando la sua origine nella morale e nel sentimento, se riconduciamo la capacità di fare progetti alla conoscenza del bene e del male e perciò allo sviluppo della «coscienza di sé», la soglia entro cui si può iniziare a parlare di esseri umani.  

Una soglia che L.Z.* spiega attraverso la «separazione noi/loro, cioè tra il bene che riportavo nel nucleo famigliare e il male, la spietatezza, che utilizzavo fuori di casa. Odiavo tutti, lo Stato, tutto ciò che era al di fuori della famiglia». Per sua stessa ammissione, le posizioni politiche estremizzate dagli anni di piombo lo hanno portato a scindere severamente il noi della famiglia dal loro, ossia istituzioni e Stato. E in merito a questa divisione, interviene brevemente, ma molto incisivamente, anche G.C.* riflettendo sul cambiamento nella concezione del noi: «per i detenuti è proprio il noi a cambiare, perché non è più la famiglia, ma la cella. Viviamo due noi». Una frattura scomposta che genera contraddizione costante e sofferenza. 

Concluso l’incontro nel reparto della Media Sicurezza, il seminario è stato sinteticamente introdotto anche in quello di Alta Sicurezza, dove entrando in maniera diretta nel merito della questione giustizia, F.R.* ha definito l’ingiustizia come «lo svuotamento dell’umanità», mentre secondo A.S.*, che ha commentato le radici del male e le sue manifestazioni, «l’uomo sa compiere il male senza limiti, perché è dall’intelligenza stessa che arriva». 

 



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