Entrai nel carcere di Rebibbia per la prima volta nell’aprile del 2017, ventiquattrenne, tesista magistrale in filosofia morale. Lo scopo dei miei ingressi in un istituto penitenziario era attribuire un volto concreto ai fiumi di parole e teorie racchiusi in una tesi sulla funzione della pena. Partivo dalla domanda: “chi vive in carcere?”. Conclusa la prima visita non potevo ancora saperlo, non potevo ancora capirlo, ma dovevo cominciare a fare i conti con una dimensione a me inedita: sospendere il libero arbitrio, la capacità di movimento, attendere e lasciare che altri – l’amministrazione penitenziaria – decidessero per me e scandissero i miei tempi, dentro uno spazio che non era mio.

Foto di Francesco Formica

Anche da visitatrice entrata volontariamente in carcere, non avevo tempo e non avevo spazio. Ero sospesa. Senza alcuna possibilità di intervenire.

Arrendersi alla privazione indotta del proprio tempo e del proprio spazio non è cosa da niente. Gestualità, abitudini, movimenti meccanici, attitudini spontanee non hanno bisogno di essere pensate, sono scritte nel corpo che abitiamo, lo costruiscono. A tal punto da agirci, spesso senza il nostro consenso. Di certo, non potevo essere arresa alla perdita del mio spazio e del mio tempo dopo poche ore di carcere: non so se per incosciente ostinazione o se per incapacità adattativa, continuavo a spingere e tirare a me dei cancelli automatici che ovviamente non avrebbero risposto ai miei comandi. Ahia, che male sottile la semplificazione brutale della galera!

Testimone delle peripezie conflittuali tra una me imperterrita e quei cancelli noncuranti della mia insistenza – che ancora oggi continuano a spezzare corridoi, entrate, uscite, reparti, sezioni, parole, corpi – Piero Vereni, da anni docente di Antropologia culturale anche a Rebibbia. Al termine della mattinata mi dice: «Chiara, non abbiamo alcun potere su questi cancelli». Troppi piani di verità in poche parole, per acquisirli nell’immediato. Mi è servito il tempo lento, ostile e privativo del disciplinamento penitenziarlo per riconoscere a quelle parole un senso pieno, tangibile. Scarnificato e duro come l’osso che ti lascia in mano.

Mi chiedevo “Chi vive in carcere?” e dopo il primo ingresso iniziavo ad ottenere brandelli di risposta: persone senza possibilità di gestire porte e cancelli, e non soltanto quelli che li dividono dalla libertà, ma anche quelli che dovrebbero proteggere la loro intimità. La mia domanda non poteva non cambiare allora, “Chi è o cosa resta di una persona privata della possibilità di controllare una porta?”. Sono passati cinque anni da quella domanda, ma della risposta non ho ancora una traccia certa. Non abbiamo alcun potere su questi cancelli: come polvere che entra ed esce restando invisibile, tutto passa attraverso la loro irremovibilità. Anche il vagare tra il dentro e il fuori di chi li varca a vario titolo sembra solleticare le logiche respingenti della giustizia retributiva.

Ventinovenne, ugualmente ostinata, ma più arresa all’intransigenza di quei cancelli, che ancora oggi – ve lo assicuro – continuano a spezzare corridoi, entrate, uscite, reparti, sezioni, parole, corpi. Non li spingo più, non li tiro più a me. Attendo il tempo degli altri, mi adeguo allo spazio altrui, accetto di essere un’ospite non gradita, fingendo sopportazione. È parte del gioco: si accetta di essere corpi docili, per sentirsi ribelli. L’assurdo. L’esistere del carcere.

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