Il 13 giugno, esattamente il giorno successivo alla morte di Silvio Berlusconi, si chiudeva con l’ultimo incontro il seminario Leggere de Waal a Rebibbia. Abbiamo deciso di cominciare il dibattito conclusivo partendo proprio dalla figura controversa e polarizzante di Berlusconi, ricollegandoci alla lezione precedente che ruotava attorno alla questione della gerarchia e della costruzione del potere.  

Pietro Vereni ha introdotto il dibattito soffermandosi sulla molteplicità delle gerarchie, connotate da livelli di intrusività dati sia dalla misura in cui le persone riescono a farsi pensare, sia dal bisogno di queste di essere pensate. È attraverso la costruzione delle parole, del significato che viene loro attribuito e del modellamento che riescono a imprimere sul mondo circostante, che, del resto, viene veicolato l’attecchimento stesso del potere: un processo induttivo opposto all’accoglimento eppure altrettanto funzionale 

Tra i primi a intervenire, M.R.: «Berlusconi era accusato dei miei stessi reati, ma sono stati prescritti solo a lui. Il potere porta i soldi, è la ragione per cui ha fondato Forza Italia: non poteva più essere soltanto un imprenditore, perché la magistratura milanese aveva creato il pool di Mani Pulite praticamente per lui e ha avuto bisogno di creare la sua difesa politicamente».  

Sull’abilità a mettersi in gioco, invece, L.Z. riconosce che «chiunque si metta in gioco viene amato o odiato. Le persone che non lo fanno sono quelle a cui nemmeno fai caso». E lo segue anche L.F. sostenendo che «chiunque sia diventato un mito ha visto demonizzare il suo potere, anche da parte delle persone più vicine. Quando si scelgono i compagni direttamente è diverso, ma quando non si ha la possibilità di farlo, il rischio è che il meccanismo si inceppi all’origine».  

Come ribadisce Vereni, gli esseri umani si sono sempre interrogati sul tema del potere, sul grado di incidenza che esercitano sul mondo in cui si trovano a vivere, sulla postura del tenutario del potere e del suo rapporto con quella che veniva definita la “regalità divina”, che, in molte culture, consentiva al re di compiere azioni fuori da qualsiasi ordinarietà, come ad esempio accoppiarsi con la sorella piuttosto che uccidere indiscriminatamente.  

La regalità divina, considerata sacra, riveste una posizione essenziale nella planimetria del potere: proprio perché separata senza essere divisa da tutto ciò su cui esercita una presa di controllo, serve alle popolazioni in quanto forma giustificatoria e significatoria del mondo. Al tempo stesso legittima le ritualità che scandiscono il divenire delle dinamiche di potere, di modo che appaiano sempre controllabili. Berlusconi ha incarnato non soltanto la possibilità, ma la fattibilità di un simile potere, perché, prima di tutto, è stato in grado di comunicarlo.  

Il bonobo e l’ateo ci costringe a fare i conti con la sfera rituale e religiosa, perché il potere ha a che fare con una dimensione meta-umana, nella misura in cui ciascun sistema, pur essendo costruito da  noi, è sempre qualcosa che trova la sua legittimazione da fuori. E allora ci siamo chiesti se effettivamente siamo in grado di accettare l’idea di un potere che abbia un’origine meta-naturale. 

A mostrare una posizione decisa rispetto alla domanda è di nuovo M.R. che risponde: «no, il potere è dato dagli uomini agli altri uomini», eppure – continua il professor Vereni – i nostri antenati avevano a disposizione una semplice evidenza empirica: non potevano ottenere ciò che desideravano. Da qui la nascita del sacrificio come tornaconto, vantaggio non immediato, come un investimento da gettare nel tempo, nella consapevolezza che il nostro lavoro non basta. Il senso di incertezza è la verità della vita umana, la soluzione quindi necessita di un livello di realtà ulteriore.   



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