In questi giorni ci si scambiano regali come se non ci fosse un domani, e visto che “il dono” sembra uno degli oggetti ancora più fertili della riflessione antropologica, pensiamo che sia utile (e forse generoso) provare a parlarne un po’ più da vicino, con il solito intento, di queste pagine e del nostro intero progetto culturale, di darci una mano gli uni gli altri, fosse anche solo aumentando di un goccio la consapevolezza di quel facciamo. 

La contrapposizione tra merce e dono, almeno a partire dagli anni Ottanta è stata facilmente letta come una contrapposizione tra società tradizionali (in cui vigerebbe un’economia del dono) e la “nostra” società, impregnata di capitalismo inteso come sistema di predazione e sfruttamento.
Ancora oggi, le posizioni degli antropologi e le pubblicazioni scientifiche disponibili sono molto articolate, ma l’idea che forse passa nel senso comune è quella di un mondo “altro” (presente anche nelle sacche tradizionali delle nostre società) dove vige(va) una originaria economia del dono, in ritirata sotto la pressione dell’economia di mercato che rende tutto mercificabile. 

Questa lettura semplificatoria di una contrapposizione in verità ben più sfumata produce un doppio problema di interpretazione morale. 

  1. Ripropone l’opposizione tra noi e loro ben oltre qualunque verità empirica: abbiamo dati sufficienti per dover riconoscere che ci sono forme di economie del dono nelle società capitaliste e di economie mercantili nelle cosiddette società semplici. Pretendere che il male e il bene si dispongano lungo i confini degli stati o dei sistemi politici, economici o culturali è un approccio a dir poco ingenuo.
  2. Soprattutto, crea un malinteso nel senso comune, cioè finisce per distorcere quel che si debba intendere normalmente per merce e per dono. Partiamo dalla merce, allora. La definizione minima che utilizzano gli antropologi è molto precisa: è merce tutto quel che è stato prodotto con l’intento di essere venduto. Cosa poi ne faccia l’acquirente sono problemi suoi. Insomma, se mi faccio un panino perché ho fame quel panino non è merce, ma se faccio dei panini per venderli per strada quelli sono merce.

Questa definizione minima consente di pensare alla “storia sociale degli oggetti” come dice Appadurai, cioè al modo in cui cose specifiche cambiano lo status da merci a doni o anche a oggetti inalienabili. L’orologio che porto al polso è stato costruito da qualche parte in Svizzera negli anni Trenta come merce, e così è stato venduto agli acquirenti che l’hanno poi rivenduto agli amici di mio nonno che glielo regalarono di seconda mano. Di certo da allora quell’orologio ha smesso di essere considerato una merce acquistabile sul mercato e la mia famiglia l’ha trasformato in un possesso inalienabile che si trasmette e si eredita per via maschile. 

Le merci, quindi, non sono solo il prodotto di un sistema intrinsecamente predatorio (il capitalismo) e possono essere vantaggiosamente trasformate in una forma specifica di determinate relazioni sociali. Ma ancor più interessante è quel che l’antropologia ci dice della nozione di “dono”. Il dibattito è (stato) veramente enorme, ma il punto fermo è quel che Mauss aveva scoperto (o forse intuito o, come dicono i suoi detrattori, inventato) già nel suo Saggio sul dono del 1923-24, e cioè che dei doni e dei regali si può dire tutto tranne che siano lasciati alla libera scelta individuale: il dono è piuttosto un sistema di obblighi, per cui è obbligatorio donare, è obbligatorio accettare quel che viene donato, ed è obbligatorio contraccambiare in qualche modo il dono ricevuto, in un sistema di debiti reciproci che è tutt’altro che libero. 

Se mai esistesse, una società del puro dono (una società in cui non esistano merci come le abbiamo definite sopra) sarebbe un incubo di obblighi costanti, in cui ricevi del cibo ma devi ripagare con lavori di corvée, ottieni un partner matrimoniale ma devi saldare il debito lavorando per i suoceri per molti anni, puoi anche produrre moltissimo con il tuo duro lavoro, ma comunque dovrai distribuire la gran parte a tuoi “creditori” che se l’aspettano per principio. Le società di cacciatori e raccoglitori contemporanei che abbiamo avuto modo di conoscere sono state molto vicine di questo modello, ma la motivazione sembra essere stata, più che un’opzione etica, una necessità ecologica, dato che questo sistema di “reciprocità equilibrata” è funzionale a garantire la sopravvivenza del gruppo. 

È appurato anche che appena c’è la possibilità di produrre qualche surplus le società amano differenziarsi al loro interno, e lo fanno anche consentendo accesso limitato a specifici beni per specifici gruppi sociali, non sempre in relazione gerarchica: la differenza tra quel che è “nostro “ e quel che “vostro” può servire semplicemente a marcare il confine, senza stabilire chi sia il Servo e chi il Padrone in questa relazione di oggetti distinti, in un gioco di rapporti sociali di cui Hegel avrebbe forse capito poco. 

Donare, lo sa chiunque abbia ricevuto un regalo inaspettato e magari troppo impegnativo, è un altro modo di regolare i rapporti umani, e questa regolazione non avviene necessariamente in uno spazio di “generosità”, tutt’altro. Se lo spazio della merce è la città, si può dire che, a livello simbolico, lo spazio del dono è il paese: ci si conosce tutti, tutti hanno strumenti di sostegno ma anche di controllo, tutti sono in debito ma anche in credito, tutti hanno qualcosa da pretendere, oltre che da dare obbligatoriamente. La modernità ha ridotto non solo lo spazio fisico di questo “paese morale” dove tutti dipendono da tutti, ma ha soprattutto ridotto la nostra disponibilità di considerarlo uno spazio accettabile per noi, per noi persone individuate. La modernità (perfino la tarda modernità che ancora viviamo) è anche quel periodo in cui, di fronte a un eccesso di generosità, a una sovrabbondanza di doni, ci tiriamo indietro sospettosi, sapendo che prima o poi qualcuno verrà a pretendere di saldare il conto. E quel giorno sarà probabile che ci sfugga una preghiera che suonerà molto come un’imprecazione: troppa grazia, sant’Antonio! 

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