Mi piace guardare i gol del campionato di calcio. Non tifo per nessuna squadra, ma seguo le sintesi video da tre minuti che vengono messe in rete poche ore dopo la fine delle partite, e che da qualche anno anche in Italia va di moda chiamare “highlights”.

Credo che avessero ragione gli sceneggiatori di Nanni Moretti, quando in Habemus Papam immaginarono che uno psicoanalista suggerisse al pontefice, per curare la sua depressione, di seguire un campionato di pallavolo organizzato in Vaticano per quello scopo. Lo sport innesca produzione di adrenalina e serotonina in chi lo guarda. Così anch’io mi tiro su con quelle pillole audiovisive.

In una delle ultime partite del campionato giocate prima dell’interruzione che ha lasciato spazio ai mondiali in Qatar, Sampdoria-Lecce, mi hanno colpito le immagini finali. Ha vinto il Lecce due a zero: il secondo gol lo ha fatto Lameck Banda, nato a Lusaka il 29 gennaio del 2001, un giovanissimo giocatore zambiano che non avevo mai sentito nominare, e che prima di approdare a Lecce ha giocato in Russia e in Israele.

Dopo il fischio finale, nel filmato si vedono i compagni di squadra in tuta che festeggiano Banda. Uno in particolare – non so se calciatore anche lui, o membro dello staff – lo abbraccia saltellando, sorride a bocca aperta, quasi ridendo di felicità (link qui). È difficile vedere sgorgare dal volto di un uomo una contentezza così piena. Ed è rarissimo assistere, per la strada o altrove, a un abbraccio così gioioso fra un europeo bianco e un africano nero. Non era tanto questo che mi aveva colpito, quanto il fatto che un’emozione così genuina fosse prodotta da un dispositivo sociale artificiosissimo: ci vuole un campionato, un sistema simbolico di regole sofisticate, una mobilitazione economica enorme, insomma una baracca gigantesca, posticcia, complessa, per molti aspetti fasulla, per erogare un gesto che, benché stratificato e fitto di infiniti presupposti (a Clifford Geertz non basterebbe una thickest description per esaurirlo!) aveva tutta l’aria di essere l’indice di un sentimento purissimo.

Ero sdraiato a letto, mi ero svegliato in piena notte, e invece di lasciarmi corrodere come al solito dai pensieri angosciosi sulmio futuro, ho cominciato a svariare sul telefono, alla ricerca di qualche altra notizia su Lameck Banda. Sono finito in un sito di tifosi del Lecce. Ho trovato un’intervista a un suo ex compagno di squadra, un brasiliano che aveva giocato con lui in Israele. Ne parlava bene, anche se in una risposta precisava che non poteva diffondersi a descrivere il suo carattere, perché Banda «è timido, non parla tanto, non ho strinto un grande rapporto fuori dal campo».

Strinto?! Improbabile che un brasiliano si esprima così, forse è stato il giornalista a variare le sue parole trascrivendole. Ma non è questo il punto. Mi sono ricordato di quel che tempo fa mi aveva fatto notare la studiosa Carla Benedetti, che è di Pisa. “Strinto” è un toscanismo popolaresco. È il participio passato di “stringere”. I toscani, che nel parlare sono più precisi di noi (o meglio, più precisi di me), distinguono fra “stretto” e “strinto”.

Sebbene, etimologicamente, “stretto” e “strinto” [1] siano entrambi participi passati, il primo in toscano ha funzione di aggettivo (un vestito stretto) e il secondo di participio, cioè di una forma pienamente verbale, che designa il risultato di un’azione (un impermeabile strinto alla cintola con una cintura). In altre lingue europee si usano parole diverse per significare l’una o l’altra cosa [2]; in italiano, è sufficiente prendere il contrario di “stretto”, per vedere all’opera una differenza marcata tra aggettivo e participio: “la cintola è larga perché il sarto l’ha allargata troppo”, mentre “la cintura è stretta perché l’hai stretta troppo”.

Chi se ne importa?, potrebbe giustamente obiettarmi chi è arrivato a leggermi fino a qui. Eh be’, “stretta” per me è una parola fondamentale per comprendere il mondo in cui vivo (o dovrei dire, più precisamente, più toscanamente: per gettare cibo nelle fauci della mia vorace sensomania). Lo è perché Leopardi, nel suo giovanile Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (1818), definisce ciò che è accaduto nella modernità alle nazioni europee, soprattutto in Francia, in Inghilterra e in Germania. Esse vivono in una società stretta, così la chiama Leopardi, che «consiste in un commercio più intimo degl’individui fra loro», tanto che «per mezzo di quella società più stretta, le città e le nazioni intiere […] divengono quasi una famiglia, riunita insieme per trovare nelle relazioni più strette e più frequenti che nascono da tale quasi domestica unione».

Ho evidenziato io in corsivo i termini che mi interessano. Qui Leopardi sembra usare “stretta” e “strette” come aggettivi, non come participi [3]. La società è stretta, l’infittirsi e il ravvicinarsi urbano dei rapporti ha come effetto un’intimità quasi famigliare tra gli esseri umani. Qui lascio da parte le riflessioni di Leopardi sulle conseguenze etiche di questa situazione. Mi interessa ciò che ha colto, cioè la sua descrizione fenomenologica: che cosa è successo ai rapporti umani ai suoi tempi, e cosa sta succedendo ai nostri.

Non c’è dubbio che, al confronto di quella in cui viveva Leopardi, noi viviamo in una società ancora più stretta: una società strettissima. La connessione con gli altri è continua; abbiamo la possibilità di attingere istantaneamente a informazioni su perfetti sconosciuti, informazioni che un tempo erano riservate a poliziotti e agenti segreti (conoscere l’origine di un calciatore africano, la sua città e data di nascita, in quali squadre ha giocato prima, come si comporta in campo e fuori, che carattere ha); l’avere, se non tutte, tantissime persone potenzialmente sotto gli occhi, in un panottico reciproco, un sistema di sorveglianza arcigna e di comunicazione soccorrevole (e anche sorveglianza soccorrevole e comunicazione arcigna): tutto questo, e molto altro che è stato analizzato innumerevoli volte in questi anni da sociologi e antropologi e filosofi e massmediologi, sono caratteristiche della nuova società strettissima.

Ma la nostra società è stretta o strinta? È strettissima o strintissima? Ci siamo ritrovati a vivere dentro una qualità, o sotto l’effetto di un’azione? Abitiamo in un aggettivo o in un participio? Nell’Essere o nel Divenire? Anzi, non nell’Essere ma nel Caratteristico, nello Specifico (aggettivo). E non nel Divenire ma nell’Effettuato, nell’Eseguito (participio). E dunque: viviamo nello Specifico o nell’Eseguito? Tendiamo a considerare come aggettivo, cioè come caratteristica ambientale e dato di fatto, ciò che in realtà è un participio, cioè il frutto di una decisione attiva e forse strategica?

È stato qualcuno – il mercato, il capitale, la politica, la tecnologia – ad aver strinto sempre di più la società, oppure l’attitudine umana che desidera vivere accanto ai propri simili si è semplicemente estrinsecata, si è rivelata e oggettivata in una tendenza a cercare luoghi sociali sempre più stretti, a inventarli perché corrispondessero a un bisogno di coabitazione intima? Il desiderio collettivo, l’ideale compartecipativo, l’utopia comunitaria si è tradotta in una sfintopia? [3]

Ho rapporti sfintopici sempre più stretti con una quantità di persone che un tempo avrei sì e no incontrato ogni tre anni. Sono io che li ho strinti, questi rapporti? Me li ritrovo strinti da una forza di volontà epocale che ha instaurato la sfintopia in cui vivo? O il mondo è fatto così e basta, perché agli esseri umani piace stare stretti, sempre più stretti, strettissimi, e ormai possono farlo e la vita finalmente corrisponde a come se la auguravano? La mia vita sociale, le mie esperienze di relazione, sono un evento (la società stretta) o un prodotto (la società strinta)? Vivo in un ambiente o in un allestimento?</p

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Note
[1] “Strinto”, a ben vedere, avrebbe dovuto essere la forma più corretta: vedi “cingere”, “dipingere”, “fingere”, “spingere”, “tingere” e tutti gli altri verbi in -ingere, che hanno immancabilmente il participio passato in -into.
[2] In tedesco, gli aggettivi per “stretto” sono “eng” o “schmal”, i participi “zugedrückt”, “festgezogen”; in francese l’aggettivo è “étroit” ma anche “serré”, il participio è “serré” (dunque in analogia con l’italiano); in inglese gli aggettivi sono “narrow”, “tight”, i participi “squeezed”, “narrowed”, “tightened”.
[3] Ma se avesse scritto il suo saggio una decina di anni dopo, durante il soggiorno toscano a Firenze e a Pisa, chissà se si sarebbe posto il dubbio di scegliere fra “società stretta” e “società strinta”.
[4] Il neologismo sfintopia, che è evidentemente un calco-variazione da utopia, è un mio assemblaggio tra sfintktòs, “stretto” (da cui l’italiano “sfintere”) e tòpos, “luogo”. Attenzione però: sfintktòs è aggettivo! L’alternativa verbale,
non aggettivale, sarebbe il participio aoristo passivo, sfinkthèis. Ad ogni modo, l’unione tra sfintktòs e tòpos, a rigore, darebbe sfintotopia; ma la crasi sfintopia suona meglio. E però, se preferite un barbarismo (metà neolatino e metà greco), usando i derivati di “stringere” italiano e di “tòpos” greco, l’ambivalenza si ripropone: viviamo in una strettopìa o in una strintopìa? Nel dubbio, meglio restare prudentemente (vigliaccamente?) nel vago con sfintopìa.


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