Il penultimo incontro del seminario Leggere de Waal a Rebibbia ha riguardato il tema della gerarchia e della costruzione del potere in carcere.

Che il carcere sia un luogo in cui il potere guadagni la sua ufficializzazione attraverso i tre passaggi fondamentali di gerarchia, militarizzazione e burocrazia è scontato. Non lo sono, invece, le pratiche esplicite formali (che variano da struttura a struttura), né quelle implicite che si sviluppano nell’informalità delle relazioni, a loro volta fondamento della convivenza e dei rapporti di potere. 

A introdurre il dibattito la domanda di Pietro Vereni circa il rapporto che i partecipanti del seminario intrattengono con la gerarchia:
Come si incontrano le norme scritte e le regole non dette? Come nascono i rapporti con le altre persone recluse e con l’amministrazione penitenziaria?
 

A rispondere per primo è L.F., in uno slancio il cui intento è normalizzare la tendenza sociale degli uomini che vivono in carcere, al pari delle relazioni esterne ad esso. «Non siamo un unico gruppo come i bonobo. Dopo non troppo tempo, nel corso della detenzione, esce fuori la vera persona. All’inizio si tende a indossare una maschera che copre la vera personalità. “Quello è bravo”, diciamo all’inizio, per poi ricrederci dopo qualche tempo e dire “quello sembra bravo”. L’inverso invece non capita quasi mai». A confermare la chiave di lettura del compagno, è F.F., che inserendosi nel confronto, ribadisce: «in carcere i pregi e i difetti delle persone emergono quasi subito». 

Due interventi che si completano a vicenda e che fanno emergere una caratteristica essenziale delle strutture detentive: la convivenza forzata, prolungata e continuativa impedisce a chiunque di filtrarsi. La promiscuità, che scaturisce dall’assenza totale di una dimensione intima, provoca la condivisione coatta del privato. Un’intrusività totalizzante, i cui effetti principali emergono spesso attraverso la paranoia e i disturbi psichici, la cui gravità varia in base alla capacità adattiva del soggetto al contesto e alla sua regolamentazione interna. 

Parlando più nello specifico dei rapporti tra persone detenute e agenti della polizia penitenziaria, ci siamo soffermati sulla modalità con cui nascono e si evolvono nel tempo, tornando a raccontare la modalità relazionale del sospetto su cui avevamo dibattuto negli incontri precedenti. Sempre L.F. prende la parola e sottolinea che «la gran parte delle restrizioni in carcere esistono perché noi detenuti creiamo disagio. Allo stesso tempo, però, abbiamo bisogno di adottare anche noi la regola del sospetto, che ci porta a sviluppare dei filtri, sia rispetto agli altri compagni che alle guardie, ma non ha niente a che vedere il nonnismo militare».  

Ciò che è emerso con chiarezza è l’inevitabile trasversalità dei rapporti di potere e delle relazioni umane in generale: la strutturazione della quotidianità spicciola e informale dei legami e degli scambi all’interno della norma precostituita. La medesima attitudine alla socialità che contraddistingue qualunque rapporto interpersonale è impossibile da normare, come hanno ribadito e confermato diverse persone presenti all’incontro: «le relazioni che istauriamo sono per lo più informali, di solito si vede dall’inizio quali sono le persone di cui è possibile fidarsi o meno. A volte proprio noi facciamo in modo che i nuovi giunti, di cui pensiamo di poterci fidare, vengano inseriti nei contesti più positivi, come la biblioteca o il teatro, perché cerchiamo di aiutare le persone che arrivano e di inserirle sulla base delle loro competenze e qualità, come una sorta di ufficio per le risorse umane».   



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