Solomon “Solly” Zuckerman era un baldo medico britannico (nato nel 1904, figlio sudafricano di genitori ebrei russi) che a 24 anni si trovò fare lo zoologo nella “Collina delle scimmie” del Regent’s Park Zoo di Londra. Aveva poche idee, ma molto chiare, e tra queste vi era la convinzione che gli umani andassero tenuti concettualmente separati da tutti gli altri animali.

Così, senza che vi fossero ragioni di ordine scientifico, aveva stabilito che gli australopiteci non potevano essere considerati antenati degli umani, e lo stile di vita di scimmie e primati fosse assolutamente diverso da quello degli umani: divenire umani, nella sua concezione, era stato un lavoro di separazione, di negazione totale di quella matrice animale. La sua idea era nitida, quasi una fissazione: gli umani non sono animali. La strada per provare questo principio diventava doppia.

  1. Dimostrare che gli animali sono davvero animali. Come dire, proprio delle bestie. Nello zoo di Regent’s Park mise allora assieme un bel po’ di mandrilli (un tipo di scimmie piuttosto aggressive, dotate di canini affilatissimi e i cui maschi sono grandi mediamente il doppio delle femmine) facendo competere i maschi tra loro. Tra i mandrilli, ogni maschio tende a costituire un gruppo di femmine sotto il suo controllo, ma mettendo assieme intenzionalmente meno femmine che maschi, si crea il contesto per scatenare una feroce violenza competitiva.
    Sulla Collina delle scimmie, Zuckerman poteva così vedere maschi che si scannavano per il controllo delle femmine, e poi si portavano in giro le loro “conquiste”, spesso sfinite o morte. Questa impressionante impresa scientifica portò alla pubblicazione, nel 1932, del libro che gli diede fama (e che poi lo portò a collaborare come “Consigliere di guerra” con l’Amministrazione britannica), vale a dire La vita sociale delle scimmie e dei primati. In questo libro l’anatomista ventottenne sosteneva che quel che era successo nello zoo londinese era tipico delle società scimmiesche e lanciava un monito forte a che gli umani non prendessero quella società a proprio modello: “Il legame sessuale è più forte della relazione sociale e un maschio adulto, a differenza di una femmina, non appartiene a nessun altro individuo” (p. 303). La lezione era chiara: gli animali sono incapaci di relazioni sociali che non siano dettate dalla forza fisica e ogni maschio è un individuo che si relaziona con gli altri utilizzando solo questa forza come unità di misura della sua socialità.
  2. Tutti gli studi successivi hanno dimostrato la falsità di una simile concezione delle scimmie e dei primati, ovvero bruti in costante preda della violenza, ma lord Zuckerman (questo, intanto, il titolo acquisito nel 1971 per i suoi evidenti meriti) non era uomo da farsi intimidire dalla realtà e tirava dritto. Se la montagna della bestialità animale era difficile da scalare, si doveva comunque evitare che sentimenti e pratiche troppo umane potessero essere individuate nel mondo animale: antropomorfismo ingenuo, ecco il vero nemico di uno scienziato tutto d’un pezzo.

Immaginate quindi la faccia di Solly Zuckerman quando, nel 1962, presiedendo una sessione di lavoro della Zoological Society of London, questo trombone ormai ultracinquantenne, pieno di sé quanto di pregiudizio, vide che tra gli iscritti a parlare c’era Jane Goodall. La signorina aveva 28 anni (gli stessi di quando Solly aveva iniziato l’esperimento della Collina delle scimmie), una bellezza inglese incantevole, e non possedeva alcun titolo di studio, neppure una laurea triennale in scienze naturali. Nel 1957 aveva viaggiato in Kenya e lì aveva contattato un famoso paleontologo, Louis Leakey, che l’aveva assunta come segretaria per un progetto di ricerca sul comportamento degli scimpanzè nel loro ambiente naturale, che secondo Leakey poteva dire molto sulle origini del comportamento umano. Nel 1960 Leakey era riuscito a raccogliere i fondi per far partire il progetto e ormai da quindici mesi Jane studiava gli scimpanzè del parco Gombe, in quella che oggi si chiama Tanzania. I risultati del lavoro di Jane erano già sbalorditivi, era proprio per quei dati della sua ricerca che era stata chiamata a relazionare, con la sua esile figura e l’immancabile coda di cavallo.

Zuckerman schiumava rabbia e testimoni oculari lo ricordano scagliarsi contro gli organizzatori alla fine dell’incontro: “Chi ha invitato questa ragazzina sconosciuta e ridicola a un convegno scientifico?

Era una donna in un ambiente dominato da maschi, non aveva alcun titolo accademico (anche se Cambridge accolse il suo progetto per l’evidente quadro teorico innovativo e le conferì il dottorato nel 1966) e, peggio che mai, aveva aperto una pista di ricerca incredibile, dato che gli scimpanzé sembravano in grado di praticare costumi che fino ad allora erano stati considerati specifici degli umani, almeno tra i primati: fabbricazione e uso intenzionale di strumenti, diplomazia politica, strategie di guerra, caccia di altri animali, compassione e collaborazione. La rigida barriera tra umani e animali che Zuckerman aveva eretto facendo massacrare tra loro i mandrilli del Regent’s Park Zoo sembrava crollare sotto i docili colpi di questa solidissima biondina senza laurea.

Nel 1991 — dopo che Jane Goodall aveva da tempo sconvolto il mondo e “ridefinito l’uomo”, come aveva riconosciuto Louis Leakey — il vecchio lord Zuckerman ancora non si dava per vinto e trovò le energie per scrivere una lunghissima recensione di diversi libri (tra cui l’autobiografia di Goodall). Recensione intitolata a ribadire la fissazione di una vita di studio: Apes R not Us, qualcosa come “Mica siamo scimmie”. I commenti che Zuckerman riserva al lavoro di Goodall sono imbarazzanti per il livore senile di chi non riesce ad ammettere che la propria teoria era semplicemente errata, che gli esseri umani sono primati molto più vicini agli scimpanzè e ai bonobo di quanto non si potesse neppure immaginare negli anni Sessanta e che quindi non solo la bestialità ci appartiene come specie, ma l’umanità per molti versi appartiene a tutti i primati.

Il vecchio Solly, a sprezzo del ridicolo, non si mosse dalla sua idea, al massimo concesse che l’avvenenza della giovane signora avesse lanciato una moda per lui poco comprensibile: “Sarebbe stato sorprendente se la pubblicità associata alla vita della Goodall non avesse creato lo stereotipo di giovani donne attraenti che […] abbandonano la civiltà ‘per entrare in comunione con la natura’…”.

Oggi nessuno ricorda più Solly Zuckerman, e questo è un bene, mentre Jane Goodall è celebrata come colei che, tra i primi, ha empiricamente messo in discussione l’eccezionalismo umano. Ci resta solo il dubbio che, dimenticato Zuckerman, abbiamo scordato l’importanza in negativo della sua lezione: gli umani sono meno bestiali di quanto potrebbe pensare il nostro ignorante pessimismo, perché i nostri cugini primati non raggiungono la crudeltà animalesca che immaginavamo, prima di cominciare a conoscerli.

E proprio a dispetto di questo ignorante pessimismo, la nostra animalità non è da idealizzare e neppure va demonizzata: i nostri corpi e il sistema delle nostre percezioni sono una inossidabile e ineluttabile dotazione naturale. Illudersi, come Zuckerman, che ciascuno di noi possa costruirsi in base alle sue scelte culturali o psicologiche, senza tener conto di quel che ci impone la forza – spesso benefica – della natura, rischia di introdurre, di nuovo, un eccezionalismo di cui possiamo davvero fare a meno e di cui Goodall aveva ragione a dubitare.

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