L’antropologa britannica Marylin Strathern ha lavorato a lungo come ricercatrice sul campo a Papua Nuova Guinea, e a partire dalla fine degli anni Settanta ha pubblicato una serie di studi dedicati alla costruzione culturale del gender (in particolare a Papua) e ai mutamenti tecnologici nella riproduzione della nostra specie (in particolare nel Regno Unito). 

È una scrittrice molto raffinata, e anche molto complicata, e qui da noi i suoi lavori sono stati tradotti con molta parsimonia. È un peccato, perché nel suo stile un po’ oscuro Strathern ha detto delle cose davvero importanti per tutta la teoria delle scienze sociali. Si pensi che è suo il concetto di “dividuo”, vale a dire di persona che – almeno tra la popolazione di Mount Hagen dove ha lavorato – si concepisce come distribuita in diversi corpi (legati tramite la parentela). 

Studiando i riti di iniziazione (quei riti che consentono l’ingresso dei giovani nella vita adulta, per sintetizzare), Strathern ha presentato un’altra teoria: potrebbe essere una regola generale quella secondo cui le culture, lungi dall’accontentarsi della separazione naturale tra maschio e femmina, mettano in atto riti di passaggio intesi proprio a intensificare la distinzione di genere? Può essere cioè che i riti di iniziazione non servano tanto a fare di un maschio biologico un “vero uomo” e di una femmina biologica una “vera donna”, quanto piuttosto a prendere l’androgino originario e separare dai corpi riconoscibilmente maschili il residuo femminile e dai corpi riconoscibilmente femminili il residuo maschile, in modo da ripulire la distinzione e finire l’opera rituale con veri uomini e vere donne? 

Un’idea di questo tipo implica da parte delle culture un duplice lavoro, non sempre consapevole ma comunque sempre eseguito (pena l’estinzione del gruppo sociale che non vi si sottomette). 

  1. Gli esseri umani sanno che maschi e femmine ‘naturali’ sono troppo simili tra loro per non pretendere una separazione rituale. Questa conoscenza introiettata può essere letta anche dal punto di vista biologico: nella specie umana il dimorfismo sessuale non è abbastanza marcato da garantire una sicura ed efficace divisione del lavoro sociale. Per poter funzionare ‘come società comanda’, i corpi dei maschi e delle femmine devono essere in qualche modo scrostati dall’alterità di genere che li inquina.
  2. Le culture umane, così facendo, riconoscono proprio che maschi e femmine ‘naturali’ sono troppo diversi tra di loro per poter essere fungibili in totale equivalenza: ai maschi biologici vanno applicati i rituali maschili, e alle femmine biologiche i rituali femminili.  

È come se ci fosse una carenza naturale di differenza tra maschi e femmine, differenza che è sentita come un bene a disponibilità limitata. In quest’ultima definizione le cose interessanti sono due:  

  1. è a disponibilità limitata, cioè non ce n’è automaticamente per tutti, tocca sbattersi per ottenerlo; 
  1. ma è un bene, vale a dire un valore, cioè una cosa che alle società serve come il pane (più del pane, è ovvio). 

Se, insomma, la teoria di Strathern è giusta, le culture sono dispositivi che da un lato costruiscono le differenze di genere, ma dall’altro sono costrette a farlo perché se non lo facessero il meccanismo della riproduzione biologica e culturale rischierebbe di incepparsi.  

Maschi e femmine, quindi, sono naturalmente diversi, ma non abbastanza, e anzi la cultura serve a rendere ancora più nitida questa differenza, in modo che si possa attuare quella divisione del lavoro sociale che non è una strategia di ingiustizia e sfruttamento, ma il semplice riconoscimento che se fossimo tutti esattamente intercambiabili sul piano sociale le culture si sarebbero estinte: dal punto di vista biologico, c’è bisogno di qualcuno che produca lo sperma e qualcuno che produca gli ovuli; di qualcuno che gestisca un feto in utero per quaranta settimane, un periodo lunghissimo, accompagnato fino a pochi decenni fa dalla necessità di trovare una femmina in grado di allattare il cucciolo almeno per sei mesi.  

È vero che “la nostra società” sembra aver superato tutte queste costrizioni, potendo surgelare ovuli e spermatozoi e potendo liofilizzare il latte, ma mezzo secolo di storia non è certo sufficiente a modificare prospettive e pratiche radicate nei corpi da centinaia di migliaia di anni. 

Ecco, pensavo a tutto questo quando ho saputo che Jacinda Ardern si è dimessa dal suo ruolo di Premier della Nuova Zelanda. Ha fatto un lavoro egregio, come politica e come governante, che tutti le hanno riconosciuto, anche quando le facevano domande stupide sulla sua capacità di combinare il suo ruolo pubblico e quello privato, di madre, ovviamente. 

Non ci aggiungeremo al triste coro dietrologista di coloro che sanno le “vere ragioni” delle sue dimissioni, piuttosto vogliamo fare l’opposto, e prendere queste dimissioni per quello che sono, per il loro effettivo significato evidente. Sarebbe stato possibile un gesto del genere fatto da un uomo? Qualcuno riesce a immaginare un politico maschio che esca di scena in questo modo, all’apice del potere e della considerazione nazionale e internazionale? Forse Jacinda Ardern non voleva darci un messaggio, voleva uscire da questa finzione per cui maschi e femmine sono fungibili allo stesso identico modo. No, grazie, siamo diversi. Il modo in cui gestiamo le relazioni e il potere, e la relazione con il potere si distribuisce secondo una funzione bimodale, e quindi non è lo stesso per maschi e femmine. Siamo contenti, anche grazie a questo gesto doloroso e prezioso, di riconoscere che natura e cultura, alleate, ci costruiscono abbastanza uguali da poter collaborare senza schiacciarci l’un l’altro, e abbastanza diversi da poterci completare senza confonderci come i gatti di notte.

 

il grafico di una distribuzione bimodale

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