Una delle tappe per la serie di articoli sul carcere non può non riguardare il cosiddetto diritto allo studio o, se vogliamo attribuirgli un respiro più ampio e comune, la rieducazione come scopo della condanna. A questo punto solitamente, quasi come un rito obbligato, viene citato l’ormai abusato articolo 27 della Costituzione, e quindi si fa presente che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ok, fatto.

Non resta che tradurlo in pratica e pensarne le criticità. Che la popolazione carceraria in Italia si aggiri attorno alle 54.609 persone[1] è un fatto e che di circa la metà non si conosca il livello di istruzione è un altro fatto. Non avere la minima contezza del percorso individuale implica l’annichilimento di qualsiasi intento rieducativo: anche questo è un fatto. Così come lo è il carattere offensivo e infantilizzante del termine “rieducazione”, che si rifiuta di accogliere un’esistenza, di comprenderla criticamente.

È corretto ricondurre il senso della pena alla rieducazione? È possibile rieducare qualcuno attraverso la privazione e il dolore? La rieducazione tende alla cancellazione del vissuto, anziché al suo riconoscimento e alla valorizzazione del senso assunto nel corso del tempo. Cova in sé, già a partire dalle premesse, l’intento di fratturare la continuità del tempo: staccare il passato dalla condizione del presente e sfocare le prospettive future. Come se il passato andasse semplicemente rimosso, reciso.

È superata la penitenza, la punizione, l’adattamento al presente che la detenzione può diventare possibilità concreta di progettazione del sé. È dentro, ma nonostante la reclusione che la persona detenuta costruisce sé stessa e non è un processo scontato: “chi capisce male patisce”, mi ripetono spesso nella sala universitaria del carcere di Rebibbia.

 

Il diritto allo studio ricopre un ruolo fondamentale nell’obiettivo di revisione critica, implica la dolorosa attitudine della messa in discussione. La revisione prevede la presa di coscienza, non la rieducazione come cancellazione, ma al contrario come rafforzativo di un trascorso che, in quanto tale, va tenuto stretto come bagaglio ingombrante e instancabile di vita.

Qual è il risultato di un percorso rieducativo che rimane ancorato al dolore, alla deresponsabilizzazione perpetrata da un carcere che abolisce l’autonomia decisionale e svilisce l’iniziativa personale? Che si appropria di un linguaggio infantile, nutrito di estraniazione rispetto alla realtà esterna? Sì, effettivamente anche questa potrebbe essere considerata rieducazione, ma solo se meramente la significhiamo come “abituare a”. Il problema è che questo carcere insegna abitudini che dovranno essere disimparate di nuovo, una volta usciti dal carcere. A chi serve quindi?

Chi, durante la reclusione, sceglie di partecipare a iniziative e progetti culturali si mette alla prova e decide di portarsi fuori, di estraniarsi – almeno parzialmente – dalla condizione mortificante della privazione della libertà. I percorsi di formazione culturale sono ottimi strumenti di auto-deterrenza: la volontà di conoscere non si obbliga, si ricerca come spiraglio per poter stare o rimanere al mondo.

Rieducazione è una parola obsoleta che va ripensata e sostituita, perché fa sua la convinzione che bene e male vivano in una perfetta e insanabile dicotomia. Rieducare attraverso il dolore non vuol dire restituire alla società persone nuove, pronte a vivere nel pieno della legalità, ma persone sulle quali la società e la politica hanno esercitato in maniera prolungata e continuativa un torto: al reato non si risponde con il “carcere che rieduca”, ma accettandolo per capirne le ragioni e riconoscere pienezza alla persona.

[1] Ministero della Giustizia, dati aggiornati al 31 marzo 2022



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