Che ci faccio con l’antropologia eh?

No, tu dimmi che ci faccio a scoprire che i Tali mangiano l’igname dopo averlo fatto bollire tre giorni alla luce della luna (che cos’è l’igname, tanto per cominciare…), e che i Tal Altri mettono il bambino neonato a dormire con i piedi verso Est. Cosa è questa raccolta insensata di stranezze, questa collezione di assurdità che forse hanno un senso lì dove sono praticate ma che non ci dicono nulla del nostro mondo? 

Non è facile rispondere con precisione a domande come queste (in effetti, sai che ci frega dell’igname, e io fatico a orientarmi anche con una bussola, figuriamoci arredare la cameretta dei miei figli), ma una risposta generale c’è, ed è questa: val la pena di conoscere l’Altro, in qualunque sua forma, perché la sua esistenza getta una luce nuova sulla mia condizione ordinaria, su quello che non sapevo di praticare. Come un pesce che per qualunque ragione esca dall’acqua per qualche secondo, una volta che rientra nel suo ambiente naturale si accorge di essere sempre stato nell’acqua. 

La risposta più breve che possiamo dare al senso dell’antropologia culturale è che ci spinge ad accorgerci: degli altri e quindi di noi stessi. Insegnare antropologia è questo impegno a praticare uno sguardo oggettivo sugli altri, che diventa uno sguardo riflessivo su sé stessi. Insegnare questa consapevolezza è complicato, perché rischiamo di rimanere abbagliati dal luccichio dell’esotico, ma con i bambini è più facile, perché per loro l’altro è ovunque, anche dentro di sé, ed è relativamente facile (e bellissimo) farli stupire di loro stessi. 

Abbiamo così con KAMI pensato a un piccolo gioco, che era anche un esperimento: insegnare ai bambini un po’ di “genealogia e parentela”. Ognuno di noi è il frutto di un albero che ha piantato le sue radici chissà quanti anni fa, l’ultimo discendente di una linea ininterrotta di migliaia di antenati, biologici e morali, oggetto prima di tutto del loro affetto di bambini. Una volta che quest’immagine è stata chiara alle menti dei piccoli, è stato facile trasformare quel pensiero in un’immagine che loro stessi hanno prodotto. Si sono disegnati in un foglio (stilizzati in triangoli, cerchi e quadrati, come fanno gli antropologi nei loro diagrammi di parentela) e poi hanno disegnato le persone più vicine (i genitori, i fratelli, i nonni) poi gli zii e i cugini, e poi la rete appena esterna degli amici di scuola, delle maestre, e poi ancora quella più allargata delle maestre di pattinaggio, dei compagni della scuola calcio, degli eroi e delle eroine delle loro storie. Su esplicita richiesta di una di loro, ci siamo ricordati di aggiungere “le cose che ci piacciono” (il calcio, il pattinaggio, il nuoto), ma anche gli amici pelosi, i gatti, i cani, i canarini, e pure i pupazzi antropomorfi che circondano le loro vite. 

Ognuno di questi legami era rappresentato con un ramo, di colore diverso a seconda del livello del legame: un colore per i genitori e fratelli, un altro per zii, nonni e cugini, un altro ancora per gli amici e così via. Ne sono usciti alberi fantasmagorici, dove una coppia di genitori, e poi qualche fratello, una coppia di anziani, Elsa di Frozen, il pupazzo Pippo e “la piscina” erano tutti collegati tra loro congiungendo i “rami” che partivano da loro al disegno in alto al centro, il ritratto di Martina (e Filippo, e Carla e Luigi…). 

I bambini non ci mettono molto a ricordarsi di una cosa che gli adulti hanno scordato e che l’antropologia invece ha riscoperto: che viviamo immersi in una rete meravigliosamente (e a volte fastidiosamente) intricata di persone e “meta-persone”, cioè entità di varia natura che però sentiamo come dotate di una loro personalità e volontà: la scuola, la palestra, la città, il cellulare. Non è possibile districare il nostro “io” più intimo da questa rete, nel senso che è proprio quella rete che ci consente di dire “io” e senza quella rete di affetti, relazioni, fastidi, gioie e paure ciascuno di loro non avrebbe saputo neppure dire una sillaba di commento, perché ciascuno di loro sapeva e ammetteva che tutto quel che avevamo fatto in quel tempo passato assieme era stato possibile solo perché altre persone gli avevano insegnato le parole per dirlo, i gesti per farlo, e altre persone gli avevano insegnato a lavarsi la faccia, a infilarsi i calzini e i vestiti e venire fin lì. Perfino a camminare avevano dovuto imparare, come gli abbiamo spiegato parlando dei bambini selvaggi, che allevati nella foresta non sanno neppure alzarsi in piedi, il segno distintivo della nostra specie. 

“L’albero degli affetti” che questi bambini hanno disegnato è diventato un modo per dare forma visibile a questa sensazione che tutti abbiamo di essere parte di una rete. Quei bambini e quelle bambine se ne sono accorti, e per noi che abbiamo organizzato il laboratorio non ci poteva essere un finale più bello di vedere una bimba che, presa per mano dalla mamma per tornare a casa, di colpo “si era ricordata di essersi dimenticata” di mettere nel suo albero degli affetti anche il pupazzo con cui dorme da quando era piccolissima. “Vai a casa – le abbiamo detto – e aggiungi il tuo pupazzo al disegno. Anzi, questo disegno è solo un primo esperimento. Tanti altri ne potrai fare, sempre più precisi”. Ci ha guardato sorridente, aveva capito. Che bello. 

Per avere informazioni su come realizzare l’albero degli affetti nel tuo ente, scuola, associazione, puoi leggere questo articolo sul progetto o scriverci a info@kamicose.it 



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