(ne parlo anche in questo video su instagram)

 

Nel giro di pochi giorni il ministro Lollobrigida ha usato per due volte in maniera alquanto confusa e impropria il termine etnia e l’aggettivo derivato, etnico, parlando prima del rischio di una “sostituzione etnica” da parte degli immigrati e poi di “etnia” italiana come meritevole di salvaguardia. 

Si tratta di un uso gravemente scorretto, e la prima reazione di una persona “competente” potrebbe essere quella del disprezzo, la risposta ironica di chi, dall’alto della sua superiorità, guarda con il sopracciglio sollevato il pasticcio lessicale di una persona che si è ficcata in una questione più grande di lei. Tutto sommato il povero Ministro è anche il First Cognato della Presidente Meloni, ed è evidente che si sta caricando di un impegno lavorativo ben al di là dei suoi mezzi, quando smette di parlare di zucchine e quote UE e si slancia con sprezzo del pericolo a concionare sull’universo mondo. 

Ma lo sberleffo, che certamente Lollobrigida si merita, non è sufficiente a dar conto del disagio che questa storia mi suscita. Se ci penso un poco, mi pare evidente che il ministro non abbia tutte le colpe di un tale uso confusionario, e quindi dobbiamo anche pensare un po’ più da vicino alla storia di questo termine, “etnia”, al modo in cui è stato introdotto nel lessico delle scienze sociali e all’intrinseca ambiguità che lo caratterizza, così che poi è inevitabile che, una volta uscito dal giro dei professionisti del mestiere, finisca per essere così confuso, cosi fuzzy da poter essere usato (consapevolmente o meno è tutt’altra questione) del tutto a sproposito. 

Il termine “etnia” è stato inventato e praticato dalla letteratura antropologica nel secondo dopoguerra, usato in modo sistematico soltanto a partire dagli anni Sessanta, quando si erano rivelati ormai inservibili altri due concetti che fino alle fine della seconda guerra mondiale (e al disastro del razzismo sistematico applicato alla politica) erano stati usati con convinta precisione scientifica. I termini rimpiazzati da etnia sono stati razza da un lato (soprattutto nel lessico della scienza, divenuta sempre di più tensione politica), e tribù dall’altro (soprattutto in contesto coloniale, divenuto postcoloniale).  

Etnia (non esiste un equivalente in lingua inglese, e si usa solo l’aggettivo ethnic, per specificare ethnic group o ethnic identity) deriva dal greco ethnos, parola che nel greco moderno significa esclusivamente nazione, ma in greco antico indicava tutti i raggruppamenti indistinti o poco strutturati, per cui anche uno sciame poteva essere un ethnos, o una mandria di animali selvatici.  

Una volta che razza diventa obbrobrioso (perché biologizza l’appartenenza) e tribù suona sempre più come termine colonialista (dobbiamo imporre uno stato, a questi popoli tribali che si considerano legati da qualche vincolo di parentela), il sostituito “etnia” comincia a dilagare. 

Il successo del termine nel lessico specialistico dipende proprio da questa ambiguità semantica, dato che etnia mantiene implicitamente il naturalismo di “razza” e le connotazioni politiche di “tribù”: se dico che gli altri sono un’etnia sto dicendo che stanno assieme per qualche tipo di legame “naturale” (diversamente da noi che stiamo assieme per un contratto sociale, e non vogliamo certo rischiare di essere sostituiti…), ma quando mi facesse comodo posso parlare di etnia per il mio gruppo, perché così garantisco il diritto naturale all’esistenza di quel noi (vedi appunto l’etnia italiana di Lollobrigida). L’antropologia rende quindi disponibile un termine abbastanza vago da suonare politicamente corretto quando si voglia parlare di identità collettive. 

Dobbiamo perciò arrivare alla conclusione paradossale che il ministro pensava probabilmente di usare un termine adatto, cioè corretto, anzi asettico nella sua scientificità, in modo da esporre una posizione politica chiaramente di destra ma contrapponendosi al linguaggio del proprio passato fascista o a quello di altri gruppi politici, in generale di tutta la destra illiberale – che fino alla svolta salviniana di pochi anni fa – usavano la parola razza con leggerezza e non si preoccupavano in generale di impiegare il lessico del razzismo e del tribalismo per parlare di appartenenza. 

In un libretto che ho curato nel 2009, intitolato Passato identità politica, indico qual era il clima lessicale dell’epoca (si parla di pochi anni fa, eh, mica secoli). Un gruppo di “giovani padani” (no, non sono fascisti su Marte, sono proprio “giovani padani”) discute animatamente sul seguente tema: “La tribù celtica più numerosa e importante d’Europa, i Galli Senoni marchigiani” e include lunghe discettazioni pseudo-storiche sulla presenza celtica nella Marche, sul “tipo umano adriatico” e sulla “razza latina”, il tutto condito da continui rimandi a mappe storiche, genetiche e, ovviamente, “etniche”, in particolare a una mappa famigerata nel nostro mondo di studiosi della diversità umana. 

Si tratta della mappa stilata nel 1916 da Madison Grant, un ultraconservatore americano di stirpe anglosassone, che a inizio Novecento si opponeva all’ingresso negli Stati Uniti di immigrati italiani o ebrei europei, e pubblicata nel suo libro Il declino della grande razza, in cui Grant delineava le caratteristiche della razza nordica, considerata superiore alla razza alpina e a quella mediterranea. I celti, vagheggiati dai giovani padani, non sono esattamente nordici, ma in quanto razza alpina erano considerati decisamente superiori alla robaccia mediterranea. Poco importa che Grant avesse come obiettivo del suo libro anche dimostrare l’inesistenza storica dei celti (e di molte altre “razze mitiche” come i Latini, gli Ariani o gli Indo-Germanici); ben più grave fu il fatto che all’epoca il testo di Grant ebbe un successo enorme per le sue dichiarate posizioni razziste, al punto che Adolf Hitler inviò una lettera all’americano in cui lo ringraziava e gli confidava che “il suo libro è la mia bibbia”. 

Vedere le mappe di Grant citate e riportate da un gruppo di giovani attivisti politici fa venire i brividi a chi sa di che si tratta, ma casi del genere forse potrebbero spingerci a essere un po’ meno duri con il ministro Lollobrigida se, come sospetto, nelle sue intenzioni stava provando a parlare “forbito” citando a vanvera il concetto di etnia, pescando cioè dal linguaggio “scientifico” contemporaneo piuttosto che dal delirio razzista del peggior conservatorismo politico. 

L’apologo del ministro che parla senza conoscere le parole che usa si può concludere con due considerazioni, una a proposito di Francesco Lollobrigida, l’altra a riguardo del vocabolario delle scienze sociali. 

Forse il ministro dovrebbe ripensare la sua posizione di carriera, e valutare assieme ai suoi cari se valga la pena sopportare lo stress di un lavoro per cui, evidentemente, non è adatto. Per fortuna è finita la scemenza dell’“uno vale uno” e dobbiamo accettare che ciascuno di noi abbia certe qualità e certe mancanze, e non basta la passione per gestire incarichi di vera responsabilità nazionale. Io amo molto un certo genere di musica d’autore, ma il fatto che mi piaccia non significa che sia capace di produrla, e mi limito a goderne come consumatore. Forse il ministro farebbe bene a concepirsi allo stesso modo, un grande appassionato di politica, senza bisogno che questa passione lo costringa a ulteriori figure barbine. I greci dicevano che bisogna seguire il proprio daimon, vale a dire la propria inclinazione, il proprio genio inteso come la cosa che ci viene non solo con più gusto, ma anche nel modo migliore. Bisogna cioè misurare le proprie aspirazioni partendo dal proprio potenziale: l’ambizione e la volontà sono essenziali, ma se non ci sono le necessarie qualità, è meglio lasciar perdere, anche se si è imparentati con chi regge il timone. Anzi: ancora di più, in quel malaugurato caso… 

Ma oltre questo piccolo esercizio di paternalismo verso un uomo che ha avuto la disgrazia di veder realizzato il suo desiderio di potere, dicevo che vale la pena di dire qualcosa anche sulla mia disciplina, l’antropologia culturale, e sulle ragioni delle sue scelte lessicali. 

Se razza e tribù non si possono più usare legittimamente, ciò non significa che gli esseri umani abbiano smesso di riconoscere le differenze somatiche che li caratterizzano, né che siano sempre in grado di aggregarsi per motivazioni di ordine prevalentemente razionale: continuiamo, tutti, a prestare attenzione al colore della pelle e a sentirci più vicini ad alcune persone che non ad altre. Già come studiosi, usiamo troppo comodamente “etnia” come un termine opaco, che potrà di volta in volta essere letto come sinonimo annacquato di altre voci più scomode che non si possono dire ma che devono in ogni caso rientrare nel quadro d’analisi. 

Non riesco a trovare ulteriori motivi se non la scarsità di materiale lessicale disponibile nella produzione di un termine ambiguo come “etnia”, capace di soddisfare all’ingrosso tutti i palati e quindi inadatto a misurare alcunché di reale se non il nostro timore di urtare una diffusa suscettibilità generale. 

Un lessico dettato da ragioni di convenienza politica produrrà soltanto una scienza povera, che verrà usata più o meno consapevolmente da uomini piccoli per il loro obiettivi di tornaconto personale, mascherati da politica. 

Prendiamocela quindi con il ministro Lollobrigida per il modo maldestro con cui usa un lessico che non capisce ma, come studiosi, cerchiamo di lavorare con più precisione all’elaborazione di un vocabolario che non si limiti a dare prestigio e pompa a chi lo usa ex cathedra, ma che getti davvero luce sulle dinamiche della vita associata tra gli esseri umani. 

 



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