C’è una striscia di terra dove morire non è possibile: è lì, a un filo d’erba dalla fine. Così vicina da sentirne l’odore, l’ansimare in un respiro corto ma costante, così vicina da guardare nel fondo dei suoi occhi ciechi, attraverso denti stanchi che non conoscono vittime ma solo carne da maciullare. Nell’abitare a un filo d’erba di distanza dalla fine si dispiega il vivere, per quello che è, acido e crudo, selvaggio, dolce, confuso, bugiardo, amaro. Vero solo nella contraddizione continua dell’esistere.

«In un posto in cui lo spazio è dannatamente, ripetutamente interrotto, l’idea che il tempo si fermi è un’idea perfida. Perfida al punto da consegnarti vivo alla morte» (p. 44), scrive l’autore di Sofia aveva lunghi capelli, Giuseppe Perrone, persona detenuta con una condanna all’ergastolo. Il suo ingresso in carcere riporta la data 1992. Trent’anni cambiano i lineamenti, le espressioni, la voce. Trent’anni stravolgono i pensieri, le capacità emozionali, la fisionomia dei sentimenti. Trent’anni però non hanno ancora cambiato la condanna all’ergastolo ostativo. Fine pena mai. Pena fino alla morte.

Sofia aveva lunghi capelli è insieme romanzo e testimonianza, una narrativa autobiografica che racconta la vita trascorsa dentro l’ostatività, evitando scrupolosamente l’appiattimento alla condizione di ostativo e spostando al contrario il margine dalla ristrettezza dei movimenti all’estensione del pensiero. Sofia aveva lunghi capelli non ha il sapore delle sbarre, non soffre la circoscrizione del linguaggio, propria dei circuiti penitenziari. Dà sfogo a un cuore che è rimasto in fiamme, sotto la cenere perpetua di una pena senza fine e senza scopo. Fa del campo semantico un terreno di incontro, attraverso il quale segnare le mani che, sfogliandone le pagine, stringeranno un vissuto, auspicabilmente senza lasciarlo cadere. Per Perrone, questo romanzo arriva come risultato di decenni di studio, lauree, laboratori di scrittura e teatro, percorsi di critica e messa in discussione, scambi con le poche e rare presenze che dal mondo esterno decidono di immergersi all’interno di quel rigurgito che continuiamo a chiamare carcere, rieducazione, giustizia.  

«Questo carcere, tra le prerogative mai dichiarate nemmeno dai suoi devotissimi, predilige l’arte dello scarnificare il mio corpo, professa la regola dello svuotamento invasivo (…) Esegue il tutto con l’artificiosità del suo non essere» (p. 101). Nel solco dell’ergastolo ostativo sono spuntate delle vite, nonostante il veleno utilizzato come fertilizzante al posto del concime. Prenderne atto è uno dei compiti del nostro tempo: mentre si procrastina questa presa di coscienza, le persone muoiono di carcere. Questo romanzo è un canale diretto per conoscere da dentro il “fine pena mai”, il potere intrusivo della sua postura rigida, la pressione verticale che esercita sulle persone che ne rimangono schiacciate. Riempie di senso, di battiti di esistenza, uno dei tanti e vuoti istituiti giuridici. 

Sofia aveva lunghi capelli è un libro che ha bisogno del rumore del mondo, dei granuli di polvere dei sottopassaggi, dei confronti accesi attorno a un tavolo, della cura dell’umano. Ha bisogno di essere riempito dell’aria aperta di un parco, dei suoni striduli di un tram troppo vecchio, ostinato ancora a raccogliere e spostare fiumi di persone nei fiumi delle loro giornate. Sofia aveva lunghi capelli è nato a un filo d’erba dalla fine e per questo sa vivere solo a un filo d’erba dall’inizio.

Recensione di Giuseppe Perrone, Sofia aveva lunghi capelli, Castelvecchi, Roma, dicembre 2021. 



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