Se venissi da te e ti dicessi “sono un pappagallo rosso”, le idee che potresti farti, così a bruciapelo, sono grossomodo tre:

  • Abuso abitualmente di sostanze stupefacenti;
  • sono alquanto ebbro;
  • ho perso una scommessa con qualcuno.

Se però inserissimo questa affermazione in un contesto più “esotico”, tipo l’Amazzonia, e la mettessimo in bocca all’indigeno di turno, beh ecco che alcuni si profonderebbero in ammirati elogi dello spiritualismo nativo, mentre altri giustificherebbero con un ampio e paternalista sorriso il nostro buon selvaggio considerandolo un povero primitivo rimbambito che gioca con le foglie di piante speciali.

Inutile dire che entrambe le posizioni sono da scartare. La questione è molto più sottile e molto più interessante.

La frase “noi uomini bororo siamo ara rossi” fu registrata per la prima volta a fine Ottocento dall’esploratore ed etnografo tedesco Karl von den Stein.
I bororo in questione celebrano con regolarità un rito in cui gli uomini, ricoperti di piume di pappagallo, invocano l’aroe, lo Spirito, di cui i pappagalli sono la manifestazione.
Inutile dire che per buona parte del ‘900 il mondo accademico è andato in brodo di giuggiole nell’appioppare alla questione etichette come: “mente primitiva” e “prelogismo”. Secondo Lévy-Bruhl, per esempio, questo tipo di mentalità si fondava su principi diversi da quelli della logica razionale. Per forza, non distinguono tra uomo e animale, tra i pappagalli in piume e ossa e il loro mitico antenato comune. Ma a pensarci bene era un’epoca in cui parte del mondo accademico ancora dava aspramente contro Darwin, per cui avranno pensato: “ecco, Charlie qui vuole che discendiamo dalle scimmie e per questi altri invece dai pappagalli, qualcuno ha qualche altra idea?”.

Però, c’è un però. Nella vita di tutti i giorni i bororo non si comportavano come dei pennuti multicolore, ma la cosa pare non destò sospetti fino a quando l’antropologo Roger Kessing suggerì (parafraso): “Fermi tutti: siamo sicuri di dover prendere la cosa alla lettera?” A pensarci, se ti dico “sei proprio una volpe!” tu non inizi a dubitare della tua specie, credo. Lo prendi invece come un complimento, una metafora che sottolinea la tua astuzia, o, come è più probabile da parte mia, per sarcasmo. Ma vuoi vedere che pure i bororo…?

Eh! Perché se guardiamo le cose un po’ più da vicino, come dovrebbe essere buona pratica prima di pubblicare articoli accademici (o di condividere cose sui social) magari un paio di cose le capiamo.

 

Number one: l’iridescenza delle piume di pappagallo è associata a una manifestazione dello Spirito. Se scomponiamo l’azione, ci troviamo di fronte all’accostare qualcosa di bello al divino. È così insolito? In diversi dipinti del rinascimento gli angeli vengono rappresentati proprio con ali di pappagallo. Tiè. Se poi non ci sta bene che un volatile sia un simbolo divino, beh allora tanti saluti alla colomba e allo Spirito Santo. Per cui, fin qui, l’uso delle piume nel rituale di invocazione dello Spirito ha già una sfumatura diversa. Numero due i: i pappagalli erano l’unico animale da compagnia della tribù, e dato che vivono fino ad ottant’anni potevano persino passare in eredità. Ah, e sono di proprietà esclusiva delle donne, che li accudiscono come bambini. Come, in effetti, molti di noi fanno con i loro gatti e cani.

Terza questione: il sistema di parentela bororo è piuttosto diverso dal nostro. Il lignaggio si trasmette solo per via materna (dicasi “matrilineare”, come nel caso della religione ebraica, dove sarebbe ebreo solo chi nasce da madre ebrea) e, quando si sposano, i maschi si trasferiscono a casa della suocera (dicasi “uxorilocalità”). Felice di non essere un bororo?
Ah, e l’uomo che lascia casa sua deve comunque continuare a mantenere le sorelle, e anche se può ricoprire cariche politiche importanti deve sempre sottostare alla famiglia della moglie.

Inizi a mangiare la foglia? “Siamo pappagalli” non è un prelogismo: è sarcasmo. O meglio, una sottile ironia sociale: gli uomini sono gli animali da compagnia delle donne. 

Quante volte, nella vita di tutti i giorni, ci capita di usare espressioni o metafore che sappiamo non essere vere, alla lettera? Diciamo che il Sole sorge e tramonta, anche se in realtà è la Terra che ci gira attorno. Diciamo che i tavoli hanno le gambe, ma chi li ha mai visti correre? E le forchette? Hanno i denti (che poi sarebbero i rebbi) ma mica mordono. Abbiamo sete di potere, siamo affamati di successo, non vediamo l’ora che capiti qualcosa… tutti questi sarebbero esempi di pensiero irrazionale? O forse la metafora arricchisce il linguaggio e impreziosisce la nostra capacità di comunicare, permettendoci di unire ambiti della realtà in apparenza scollegati?



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