Il caso della donna nata in Bangladesh e cresciuta in italia, che ha denunciato il marito per maltrattamenti in famiglia, ci costringe a toccare tre argomenti importanti per la nostra disciplina: il concetto di cultura, il concetto di tradizione e il concetto di relazioni di genere.

Veniamo alla storia in sé: una donna nata in Bangladesh, ma di fatto cresciuta in Italia, nel 2019 ha denunciato il marito per essere stata trattata da schiava, picchiata e umiliata, costretta al totale annullamento. Questa denuncia è stata accolta dal Pubblico Ministero che ha ipotizzato il reato del marito come “culturalmente orientato”; vale a dire che le soppressioni delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima; sempre secondo il PM,  la disparità tra l’uomo e la donna è un portato culturale che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine.

Questa è evidentemente una concezione del tutto distorta del concetto di cultura, quel sistema di comportamenti appreso che impariamo per stare meglio nello spazio intorno a noi: viviamo non certo per opprimere o per essere vittime.  Ecco, la cultura è un sistema integrato di comportamenti che i singoli apprendono a loro vantaggio, non certo certo a danno di qualcun altro, e quindi se quest’uomo aveva appreso dei comportamenti che sono esplicitamente a svantaggio della moglie, in questo caso non è un comportamento culturale.

Purtroppo l’antropologia relativista ha contribuito a diffondere invece l’idea che ogni comportamento, una volta sancito dalla cultura a cui si appartiene, sia in qualche modo legittimo. Non è vero questo, non è vero che le culture sono legittimate a compiere alcunché, ci sono aberrazioni che non possono essere tollerate, come una fondamentale violazione della dignità umana, in qualunque direzione vada. Oltre alla rappresentazione, nella vita umana c’è un corpo reale fatto di ossa di carne, di cellule, di recettori sensoriali, di recettori psicologici che non può essere liquidato come a disposizione delle culture. Nessuna cultura può consentire ad alcuni membri di disporre a loro piacere del corpo di qualche altro membro.

Eh ma la stratificazione di classe, eh ma  la complessità interna? Appunto, se pensiamo che la cultura sia un pacchetto omogeneo che non abbia differenze interne, che non abbia stratificazione interne e che non abbia opposizioni interne, e che quindi si possa vendere di fronte a un giudice come una giustificazione, abbiamo completamente sbagliato indirizzo, siamo nella direzione sbagliata.

Poi c’è un altro aspetto che è quello della tradizione: secondo il PM le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato si è rivelato per costei intollerabile proprio perché è cresciuta in Italia, con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che la condotta di interrompere il matrimonio per confermare la sua esistenza a canoni marcatamente occidentali rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni del Popolo bengalese, delle quali invece l’imputato si è fatto schieramento attore. Anche qua, sgomberiamo rapidamente il campo da equivoci: la tradizione implica la trasmissione di una pratica culturale in un contesto culturale. Nel momento in cui le  persone che hanno sviluppato certe abitudini culturali in certi contesti culturali si trasferiscono in altri contesti culturali, alcune pratiche non hanno più senso di esistere.

Sì, secondo la cultura tradizionale bengalese, e in modo particolare in Bangladesh, donne e uomini vivono in contesti fortemente separati: la donna per diverse ragioni occupa prevalentemente lo spazio privato domestico, e l’uomo invece è più presente nello spazio pubblico. Ci sono stati anche partiti politici in Bangladesh che hanno cercato di normale questa separazione, partiti con una matrice anche di origine politico religiosa, ma il modo in cui le donne vivono in Bangladesh è completamente diverso dal modo in cui vivono in Italia: dal punto di vista domestico, le unità familiari sono estese. Ci sono fratelli che vivono assieme, oppure genitori che tengono assieme più figli o più figlie,  e in generale nell’unità abitativa convivono quelle che per noi sono famiglie nucleari diverse, spesso in una casa almeno cinque donne hanno la possibilità di solidarizzare, di dividersi il lavoro e di trovare uno spazio profondo e vero di comunicazione anche sociale.

Invece, una volta arrivata in Italia, per come è organizzato il sistema dell’immigrazione e per come è organizzato lo spazio urbano, nelle case bengalesi c’è una riduzione all’osso alla famiglia nucleare, per cui l’uomo e la donna costituiscono una coppia isolata e molto spesso la donna si trova relegata nello spazio domestico completamente da sola. Conosco molti casi di queste donne e molte soffrono in maniera terribile l’isolamento, che non ha assolutamente nulla di tradizionale del comportamento delle donne bengalesi in Bangladesh, che sono tutto fuorché isolate. Sono separate, è vero, perché stanno gran parte del tempo con altre donne e con i bambini, ma questo non costituisce una segregazione isolante, è una separazione. La stessa cosa vale per i maschi, che sono raramente a contatto con le donne.

La differenza uomo-donna può essere moralmente letta da certe altre tradizioni culturali come una condizione di superiorità e di inferiorità, ma è qui che dovremmo essere sanamente relativisti: quello che per noi è vissuto come oggettivo riconoscimento dell’inferiorità non è detto che nelle culture tradizionali sia concepito come tale, nessuna cultura consente liberamente (se non ci sono appunto delle delle deformazioni) un uso sistematico della violenza di un genere sull’altro genere. Molte distorsioni sono legate ai cambiamenti sociali e culturali che circondano alcune istituzioni tradizionali. 

Le relazioni di genere non solo caratterizzate in maniera sistematica dall’oppressione dei maschi sulle femmine, è eventualmente la condizione legata al sistema produttivo capitalistico – l’emergere della famiglia nucleare e dell’isolamento – che può creare a questo tipo di relazione basato sulla forza o addirittura sulla violenza.

Tutte le culture istituiscono la differenza tra uomini e donne, e a guidare queste differenze può esserci una gerarchia di ordine pratico-morale, per cui in alcuni campi sono i maschi ad avere il lavoro e l’ultima parola, e in altri campi sono le donne ad avere l’ultima parola, ma quello che conta è che in tutte le culture la violenza non è sistematica.  Se succede, non aggrappiamoci al concetto di cultura. 

Un consiglio da antropologo al Pubblico Ministero: studi l’antropologia attraverso gli antropologi culturali che più chiaramente sostengono queste idee, e che non si battono per un relativismo assoluto che non solo è moralmente inaccettabile, ma storicamente falso.



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