Chi non ha ancora cinquant’anni (beata lei o beato lui) non ricorda molto del caso Rushdie, che invece per noi babbioni ha significato la riapertura della “questione religiosa”. Fino ad allora avevamo pensato che il processo della secolarizzazione fosse lineare e inevitabile. Secolarizzazione voleva dire o che la religione stava diventando sempre meno importante per le nostre vite in generale (“non mi interessa” diventava un atteggiamento sempre più comune nei confronti di qualunque argomento vagamente religioso), oppure che il sentimento e la pratica religiosa venivano progressivamente confinati nello spazio privato, e sottratti dallo spazio pubblico (“è una cosa mia” diventava il modo di rispondere alle sollecitazioni di argomento religioso anche da parte di coloro che pensavano che fosse un tema importante).

Invece avvenne il caso Rushdie e non potemmo più considerare la religione come qualcosa di irrilevante o di privato. Era successo che nel settembre 1988 uno scrittore indiano di lingua inglese, Salman Rushdie, aveva pubblicato nel Regno Unito un libro, I versi satanici, che venne interpretato da molti musulmani come un’offesa alla figura di Maometto, suscitando proteste pubbliche, dapprima nel Regno Unito e progressivamente estese a molti altri paesi. Le proteste comprendevano spesso il rogo delle copie del libro, e l’attacco incendiario alle librerie che osavano tenerlo in vendita.

La protesta smise di essere una questione culturale, per divenire definitivamente politica, quando la cosiddetta Guida Suprema della rivoluzione iraniana, l’Ayatollah Khomeini rilasciò una cosiddetta fatwa, vale a dire un editto o parere giuridico, che vale la pena di riportare per intero:

Informo tutti i buoni musulmani del mondo che l’autore dei Versi satanici, un testo scritto e pubblicato contro la religione islamica, contro il profeta dell’Islam e contro il Corano, insieme a tutti gli editori e coloro che hanno partecipato con consapevolezza alla sua pubblicazione, sono condannati a morte. Chiedo a tutti i coraggiosi musulmani, ovunque si trovino, di ucciderli immediatamente, cosicché nessuno osi mai più insultare la sacra fede dei musulmani. Chiunque sarà ucciso per questa causa sarà un martire per il volere di Allah.

Potrei dirvi delle mille motivazioni (di politica interna e internazionale, oltre che private) per promanare un simile orrore, ma qui vorrei che ci si concentrasse sul peso di quelle parole, e su una questione oggi diventata molto importante, vale a dire la tendenza a considerare “violenza” il linguaggio in quanto tale, quando un contrasto di opinioni si sovrappone a una differenza di potere.

Il 12 agosto 2022, a quasi 34 anni di distanza da quella prima condanna a morte, Salman Rushdie è stato gravemente ferito a New York (non a Kabul o a Teheran, ma a New York) da Hadi Matar, un cittadino americano di 24 anni. In una intervista rilasciata al tabloid New York Post, l’attentatore ammetteva di aver letto non più di due pagine dell’opera di Rushdie, per aggiungere:

I don’t like the person. I don’t think he’s a very good person. I don’t like him. I don’t like him very much. He’s someone who attacked Islam, he attacked their beliefs, the belief systems.

Rushdie è quindi una persona che “ha attaccato l’Islam” cioè “ha attaccato le loro credenze [dei Musulmani], i loro sistemi di credenze. Non mi interessa stabilire se Matar sia uno “squilibrato”, non è quello il punto, qui cerco di portare alla luce un atteggiamento sempre più comune anche tra persone “normali”, anche tra “noi”.

Vorrei cioè porre l’attenzione sul verbo impiegato, che è attaccare. Hadi Matar ha portato un coltello nella sala della Chautauqua Institution, lo ha estratto senza dire una parola e ha ripetutamente colpito Rushdie all’addome e alla gola. Il suo commento sul fatto che Rushdie abbia “attaccato l’Islam” è stato pronunciato dopo aver portato a termine questa sequenza di azioni, e dopo aver ammesso la sua sorpresa apprendendo la notizia che lo scrittore fosse sopravvissuto. Quindi scrivere un romanzo è un attacco all’Islam, e per ciò prendere un coltello e pugnalare ripetutamente un uomo è un atto equivalente e contrario, un atto che ristabilisce una sorta di equilibrio perduto. Secondo la logica: un discorso è un attacco violento, e un omicidio intenzionale fallito per caso è un’azione che si giustifica sulla base di quell’attacco.

Il senso profondo di questo tipo di azione è che un linguaggio offensivo equivale a un’azione violenta, e a un atto di violenza (simbolica? linguistica?) si può rispondere con un atto di violenza reale. Il messaggio che l’attentatore di Rushdie ha dato con quell’attentato è chiarissimo, e purtroppo perfettamente condivisibile secondo una lettura sempre più di moda: se tu pronunci un discorso che ferisce qualcuno, quel discorso equivale a un atto di violenza e quindi tu meriti, in cambio, di ricevere violenza.

Quale violenza verbale legittima violenza fisica?
Vi è mai capito di essere in questa situazione, da una parte o dall’altra? Di legittimare un atto di violenza fisica in seguito a un atto percepito come verbalmente violento o viceversa?



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