«La prima parola dei bambini che crescono in carcere è “chiudi”». Leggere de Waal a Rebibbia – incontro 3
L’Altro, l’Io, il Mio gruppo, il Suo. Noi e Loro. È quando mi accorgo di qualcosa, che comincio ad aprire le sue stanze di significato.
Si è parte di una qualsiasi realtà come costruzione o sottrazione. È questa la traccia sempre più nitida assunta dagli incontri del seminario Leggere de Waal a Rebibbia: quali sono i tratti che ci fanno essere umani?
Siamo gli animali più inclini all’apprendimento e spogliati di ciò che abbiamo appreso non rimarrebbe altro che mostruosità; lo abbiamo ripetuto più volte nel corso dei nostri incontri a Rebibbia: l’ambiente naturale degli esseri umani sono gli altri esseri umani. Abbiamo bisogno degli altri, di quelli che chiamiamo noi, per nutrire il senso di appartenenza e reciprocità, e di quelli che definiamo “loro”, per soddisfare la spinta alla rivalsa e alla competizione. Questa è la base comune dell’apprendimento, individuata da de Waal e sviluppata attorno a due poli strutturali e innati: giustizia e compassione.
Il noi è necessario sia nella fase dell’infanzia, come bambini che non sopravviverebbero senza cure, sia in quanto adulti che hanno intenzione di riprodursi: la famiglia dunque è il primo luogo sociale, in cui convergono il senso di giustizia e compassione, rendendola l’unità minima di produzione e riproduzione, il primo sistema di riconoscimento e costruzione dell’identità. È sbagliato ritenere che si nasca criminali, così come pensare che dipenda totalmente dalla società. Entrambe non tengono conto della parte empirica, della rilevanza cioè delle componenti situazionali.
Su questo punto interviene F.F., introducendo la questione dei bambini che, fino ai 3 anni, possono vivere in carcere con la madre: «la prima parola dei bambini che crescono in carcere è “chiudi” e uno dei gesti che compiono in maniera spontanea è quello di chiudere gli armadietti». A seguirlo nella riflessione è poi L.F., che, riflettendo sul ruolo dell’educazione genitoriale, spiega la difficoltà e la complessità di essere un «padre criminale», rilevando una dicotomia «tra i padri criminali che educano al crimine i propri figli – ed è probabile che a 15 anni gli regalino la prima pistola – e quelli che invece cercano di allontanarli il più possibile, magari mandandoli a studiare lontanissimi dalla famiglia».
Aggregazioni o comunità sociali sono sistemi valoriali che costruiscono la loro esistenza su una rete di significati e credenze: “facciamo cose” perché attribuiamo e riconosciamo loro un valore, appreso all’interno del noi. Per parlarne, Pietro Vereni è ricorso al tema del tabù e, più nello specifico, al tabù dell’incesto. Secondo Levi-Strauss, la civiltà sarebbe iniziata attraverso tre tipi di scambio, riconducibili alle cose, quindi ai beni, alle parole o informazioni e infine alle persone, in particolare alle donne. In questo ultimo caso lo scambio delle sorelle tra gruppi diversi avveniva proprio per assicurarsi una riproduzione, scongiurando la possibilità dell’incesto. Il principio del tabù in questo senso sarebbe quindi adattivo, orientato ad aumentare le probabilità di sopravvivenza. In disaccordo con Levi-Strauss, invece de Waal, ne Il Bonobo e l’ateo, afferma che non abbiamo dovuto aspettare di diventare umani per riconoscere il tabù dell’incesto, perché è proprio già degli animali.
Ma a cosa serve, qual è lo scopo dei dispositivi valoriali che ci costruiscono nella comunità? «A conservare una continuità», risponde G.P. ; poi, insieme a F.R., riporta l’esempio di una tradizione per la ricorrenza nel Giorno dei morti del 2 novembre, in cui è previsto che i bambini ricevano dei regali «da parte dei parenti morti», con i quali si mantiene una continuità di senso e appartenenza. Rispetto al tema del lutto e del suo significato valoriale, G.P. prosegue sostenendo che «si sia perso il rispetto nei confronti dei morti anche nell’abbigliamento, perché si è perso l’uso dell’esposizione del dolore. Prima i vestiti neri servivano come manifestazione del dolore, perché sostituivano le parole».