Giorni fa sono entrato in una galleria di arte contemporanea. C’erano sculture, arazzi, dipinti di artisti italiani e stranieri. Un’esperienza memorabile l’ho avuta quando il gallerista che ci scortava ci ha fatti passare attraverso la zona degli uffici. Dal soffitto pendevano schermi bianchi luminosi, rettangolari, di circa un metro per cinquanta centimetri.

«E questi? – ho chiesto ingenuamente. – Sono schermi dove mostrate i video?»

«No – mi ha risposto il gallerista –, sono lampadari. Li ha progettati un designer francese». Mi ha fatto notare com’erano concepiti: due pannelli a luce led, appaiati in modo che l’oggetto finale emettesse luce da entrambi i lati.

Ho cercato di tenere a bada la mia reazione. Sarebbe stato imbarazzante se avesse capito che mi infervoravano più delle opere d’arte della sua galleria.

Vi parlerò dunque di un lampadario molto originale. Gli elementi di partenza con cui è stato assemblato sono, di fatto, due plafoniere, prodotte per aderire a una parete. Io non sapevo nemmeno cha la tecnologia led permette di ottenere fogli di luce così sottili: equiparabili a uno schermo, una pagina, un tabellone, un poster, ma su cui non ci sono segni: non ci sono immagini, c’è soltanto luce. Luce bianca, e nient’altro.

La mia sensomania si è precipitata a farne un simbolo epocale. Lo schermo, la potenza che ci domina, non chiede più di essere guardato alla ricerca di qualche cifra, alfabeto, figura, traccia. Non è più uno schermo segnifero, semaforico. Si limita a emanare luce. Ho scritto «si limita a emanare luce», ma avrei potuto scrivere «si concede finalmente di sopraffare qualsiasi segno, qualsiasi senso, affogandolo nella sovrapproduzione di luce che dissolve parole e forme e tracce, e mostra la superiorità del fondale di luce, del fondamento di luce, lo fa affiorare in primo piano come unico protagonista, come unico gesto e unico senso trans-significativo, traboccando oltre ogni significato».

Due sottilissime plafoniere appaiate, trasformate in un lampadario. Come mai mi hanno colpito così tanto?

Vivo di rettangoli. Li cerco, mi fermo di fronte a loro, li affronto, li decifro. Passo il mio tempo con i rettangoli, contemporaneamente dentro e fuori di loro: dentro, con la mia attenzione mentale; fuori, fisicamente, a poca distanza da loro, ma pur sempre distaccato da loro.

Per rettangoli non intendo le stanze, le cubature capienti, ma proprio quelle zone bidimensionali in cui il senso si addensa; essenzialmente pagine e schermi, che si declinano in tantissime specie: tabelloni, placche, etichette, fogli, volantini, manifesti, giornali, bacheche, locandine, poster, foto, stampe, monitor, display, e-reader, quadri, tabulati, moduli, scacchiere, carte di credito, tagliandi, tessere, ticket, biglietti del tram e del treno e da visita…

I rettangoli sono superfici che assumono spessore, pur restando piatti. Sono sottili ma profondi, perché all’interno del loro perimetro è stato riversato del senso, un significato da sondare, da decodificare.

Vivo di rettangoli: vale a dire che la mia forma di vita consiste in una costante applicazione delle leggi della decodifica. A volte sono leggi rigide. Altre volte, invece, consentono forzature e modificazioni elastiche: non solo la decifrazione secca, ma anche l’interpretazione sinuosa, la congettura ermeneutica. È enorme la quantità di senso che un rettangolo può elargire, e le soddisfazioni che può dare ai tipi come me.

I piaceri del rettangolo. Le delizie del rettangolo. Mi sono innamorato dei rettangoli. Sedotto dai rettangoli. Oppure: Le angosce del rettangolo. Le ambasce (e le ambascerie) del rettangolo. E anche: La maledizione dei rettangoli. Condannato ai rettangoli. Sequestrato dai rettangoli. La mia vita potrei intitolarla così.

E quindi: qualcuno ha lasciato un messaggio, una forma, la traccia di un gesto; lo ha deposto dentro un rettangolo, nel suo perimetro, dentro un quadro, un libro, un film, un cartello, negli spazi rettangolari d’ogni specie, affinché io e tutti gli altri, quando passiamo, ci accorgiamo che su quella superficie c’è del senso, e risaliamo alle intenzioni comunicative di chi lo ha confinato lì dentro (a volte risaliamo alla sua volontà di significare; altre volte ai suoi messaggi involontari, alle sue sviste, ai suoi lapsus). Qualcuno ha lanciato un appello, riempiendo di senso quel rettangolo: noi sensomani rispondiamo correndo a decifrarlo, a interpretarlo.

Perché ho scelto di vivere così? Perché questa predilezione per i rettangoli di senso?

Che cosa devo pensare di me? Che sono un sentimentale? Che voglio essere sempre in contatto con qualcuno, chiunque sia, anche quando non c’è nessuno, e perciò resto in compagnia dei rettangoli di senso che gli esseri umani disseminano ovunque? Cerco la comunicazione con loro, attraverso la mediazione dei rettangoli? Devo pensare che non so stare in solitudine con i miei pensieri? Che ho bisogno di una vita in comune, più in comune che si può? Compresa la comunanza con gli assenti, con i disseminatori di senso, con i rettangolisti?

Oppure, chi ha addensato il senso dentro un rettangolo lo ha fatto per mostrare un significato autonomo, svincolato da chiunque lo abbia prodotto? I rettangoli infatti sono fatti per erogare senso anche quando il loro autore non c’è. In tal caso, io non sarei affatto un sentimentale: al contrario, la mia sensomania rettangolofila indicherebbe una misantropia, un costante congedo dalla comunanza, una de-comunicazione che si sofferma sui segni abbandonati da chi li ha prodotti, sull’ostensione dei significati indipendenti dai loro autori, in modo che io possa pensare in solitudine, appartato da tutti, perfino quando i miei pensieri sono innescati dai messaggi degli altri.

Sia come sia, sono un sensomane, e la mia sensomania è sensibile ai rettangoli, sente acutamente la differenza di senso che c’è fra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori dal perimetro dei rettangoli.

Di tutto quel che mi offre il mondo, preferisco quelle superfici dove qualcuno ha lasciato un codice da decodificare: un testo, una figura, la traccia di un gesto. Superfici rettangolari sensofore.

Nella mia vita, i rettangoli sono stati fondamentali quanto i volti. «La più divertente superficie sulla Terra per noi è quella del volto umano», ha scritto Georg Christoph Lichtenberg; «Die unterhaltendste Fläche auf der Erde für uns ist die vom menschlichen Gesicht». Alcuni traduttori italiani rendono unterhaltendste non con «la più divertente» ma con «la più interessante» o «la più importante». Accanto ai volti, per i sensomani come me i rettangoli di senso sono le superfici al mondo più importanti e più coinvolgenti che ci siano (e anche le più divertenti, d’accordo: nel senso che passo il tempo di fronte a loro senza annoiarmi; divertenti, sì, ma pure allarmanti).

Ho fatto bene, ho fatto male a dare tutta questa importanza ai rettangoli? Avrei dovuto dare più credito, nella mia vita, a ciò che sta fuori dai loro perimetri? Passare più tempo in compagnia del mondo extrarettangolare? (Ma non vale: me lo sto chiedendo da dentro un rettangolo, in una pagina elettronica, uno schermo).

Potrei scrivere libri interi sul potere che i rettangoli hanno avuto e hanno ancora su di me, e sui modi in cui lo esercitano. Per questa volta mi accontento di un aspetto: la loro genealogia materiale. In quella galleria di arte, sotto quelle coppie di fogli luminosi appaiati a formare dei bizzarri lampadari, mi sono imbattuto in una nuova propaggine della genealogia dei rettangoli.

Le fasi principali della Historia rectangulorum sono due: quella lunare e quella solare.

I rettangoli di senso nascono lunari: riflettono la luce. Un dipinto, un libro, un cartello stradale ricevono la luce e la fanno rimbalzare sugli occhi di chi guarda, permettendogli di riconoscere una figura, decodificare un testo, interpretare un segno. Nel Medioevo, con le vetrate delle cattedrali, e poi nella modernità, le cose cambiano. Compaiono gli schermi solari, retroilluminati; all’inizio come fenomeni da baraccone, mostrati nelle fiere e sagre: pantoscopi, mondi novi; o curiosità da salotto: pitture su vetro chiuse in una scatola-visore e trapassate dalla luce di una candela (suggestive quelle di Thomas Gainsborough conservate al Victoria and Albert Museum). Raggi di luce trafiggono la superficie traslucida irradiando un’immagine, puntando dritto negli occhi di chi la guarda. I prigionieri della caverna platonica si sono voltati a guardare direttamente la fonte della luce, che è anche la causa delle ombre che li ingannavano. E delle immagini colorate, del cinematografo.

Il cinema dei primordi resta indeciso fra lunarità e solarità: i primi film si proiettavano dal retroscena, di fronte al pubblico, su un lenzuolo appeso sul boccascena, fra il raggio di luce del proiettore e gli spettatori. Il cinema era solare: era come stare a guardare un sipario diafano, retroilluminato. Poi lo schermo dei cinema diventa definitivamente lunare, con il proiettore collocato dietro le spalle del pubblico.

Il sopravvento dei rettangoli solari si ha con la televisione e gli schermi dei computer.

(Scrivo su uno schermo. Ogni mia parola spegne un’infinitesima quantità di luce).

Attualmente noi viviamo la fase egemonica della solarità rettangolare, l’Imperium rectanguli; le filiali portatili del sole sono nelle nostre tasche e borse, abbiamo sempre con noi gli schermetti di telefonini e smartphone: via via sono confluite in loro tutte le prestazioni di senso dei dispositivi dotati di schermi e display, compresi i navigatori per le auto, le calcolatrici elettroniche, i lettori di cd e file musicali… Tutti i segni e le immagini e i significati migrano dentro i loro piccoli perimetri.

 

 

Quel designer francese ha trasformato delle plafoniere in un lampadario. Ha preso una superficie luminosa che era stata fatta per aderire a una parete; idealmente l’ha staccata dal muro; anzi, ne ha prese due, attaccandole una addosso all’altra: cioè ha raddoppiato lo schermo, con un fronte e un retro luminosi; e infine, soprattutto (è questo il suo gesto semplice e decisivo) ha immerso tale doppio schermo nello spazio a tre dimensioni delle stanze. Non l’ha attaccato al muro; lo ha appeso al soffitto, ha calato dall’alto un oggetto bidimensionale, uno schermo luminoso fronteretro, facendolo entrare nel mondo tridimensionale.

Per me, quella plafoniera double-face, quel lampadario rettangolare double-lumière simboleggia l’apoteosi degli schermi solari: il loro potere è compiuto, essi non hanno più bisogno di attirare l’attenzione con la luce, per essere scrutati alla ricerca del senso di cui sono portatori. Si affermano come puri fotofori. Il loro sfondo di luce non è uno sfondo, è il vero primo piano.

Nella zona uffici di quella galleria d’arte ho visto il passaggio di consegne fra i due tipi di schermi luminosi. Sotto, gli schermi dei computer sulle scrivanie: luce esausta, egemone ma ancora servile, al servizio del senso, congesta di segni e immagini. Sopra, i rettangoli dello schermo trionfante, nella sua fase imperiale, fotocratica, non più obbligata a significare. Non più destinazione degli sguardi, ma fonte primaria di luce. Non più debole chiarore di servizio, ma illuminazione possente.

Quegli oggetti appesi al soffitto sono schermi che dominano lo spazio erogando luce. Mantengono la loro forma rettangolare di schermi, senza più mendicare il mio sguardo di cercatore di senso. Il rectangulum imperiale dà luce agli ambienti, diffonde la sua luce nello spazio abitato. Al posto di un lampadario si è installato uno schermo. Il rettangolo luminoso non accetta più di essere soltanto un portatore di senso. Ha gettato la sua maschera rugosa di segni. Avvolge tutto nella sua luce. Non si accontenta più di mostrarsi. Illumina gli spazi che abitiamo. Ci fa immergere nella sua irradiazione.

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