San Luigi dei Francesi, a Roma, è una chiesa per i miei occhi bizzarra, una celebrazione a tutto tondo del brand francese da Carlo Magno in giù. L’ultima cappella della navata di sinistra, la cosiddetta Cappella Contarelli, racchiude eccezionalmente il ciclo di San Matteo dipinto da Caravaggio. Sopra l’altare vi è San Matteo e l’Angelo, sul lato destro Il Martirio di San Matteo e su quello sinistro la Vocazione di San Matteo.

I tre quadri, composti tutti in pochi anni a cavallo del 1600, tolgono letteralmente il fiato.

La Vocazione è la prima grande tela in cui Caravaggio utilizza più che il chiaro scuro: il buio come forma pittorica, ed è probabilmente uno dei quadri più famosi di questo artista. Sulla parete opposta c’è Il martirio, forse ricordato più per l’autoritratto dell’autore che spunta sulla sinistra, che non per la raffigurazione del santo in quanto tale. A separare e unire queste due tele c’è quella centrale, alta uguale ma più stretta delle due, San Matteo e l’angelo, resa famosa dalla posa buffa dell’angelo, e ancor più dalle sue mani, che sembrano cogliere il momento in cui un garzone di bottega ripassa con le dita la lista delle sue commissioni e “sì va bene, prima passo dalla signora Maria; poi vado a ordinare il pane”; insomma, veramente buffissimo.

 

La Vocazione di San Matteo è tutta un dialogo di mani: Matteo si volge l’indice al petto, sorpreso più di tutti da quella chiamata imprevista. Sulla sua spalla sinistra si è appoggiato un ragazzino sensuale, che mostra una mano ancora paffuta, prima che le usuali fatiche della vita l’abbiano resa una mano pienamente caravaggesca come quella dei due uomini a sinistra, incapaci di cogliere la scena perché chini sulle meschinità dei loro affari. A destra, la luce disponibile consente di isolare quattro dettagli: il profilo di Gesù, la porzione superiore del mantello di Pietro, e poi due mani in posa quasi gemella: quella del Messia e quella dell’apostolo. Sono le loro mani a parlare, tanto che potremmo quasi chiamare il quadro l’accenno, più che la vocazione. La mano di Gesù, in particolare, non punta l’indice, e ricorda specularmente la mano di Adamo, protesa verso Dio nella Cappella Sistina. Una mano non imperiosa, ma più protesa a chiedere aiuto.

Anche nel Martirio ricompare questa stessa mano, la mano di Matteo stesso, a terra ferito e moribondo ormai. Ancora una volta, sono le mani le vere protagoniste della sequenza e del suo significato. La mano destra del Santo sembra contrapporsi alla presa del suo carnefice, ma in realtà si protende verso la palma dell’immortalità che un angelo fanciullo gli porge da una solidissima nuvola. In primo piano a sinistra ci sono due mani di un astante, che raccontano una vita di lavoro faticoso, e l’uomo ricco, che sopra esprime il suo errore con il gesto delle mani aperte a dita separate. Perfino l’autoritratto di Caravaggio è reso più struggente nella sua impotenza da una mano colta di fronte. Così, mentre si stende inutilmente in un gesto che vorrebbe essere d’aiuto, questo ciclo di Matteo colpisce chi lo guarda con una forza incredibile, o meglio con una forza indicibile che può solo essere appunto indicata nei dettagli: nell’uso della luce, nella forma e posizione delle mani.

Se uno non sapesse nulla della vita di Michelangelo Merisi, se uno se uno non sapesse nulla della vita di Caravaggio, cosa potrebbe indovinarne nel guardare i suoi quadri? Di sicuro un uomo ossessionato dal corpo e dalle sue passioni; pochi vedrebbero nello sguardo doloroso del Caravaggio che si auto ritrae il volto di un assassino e di un picchiatore.

È questo che intendiamo quando diciamo che Caravaggio era un genio: che c’è una sfasatura, uno scarto, tra quel che ci si potrebbe aspettare da lui conoscendo la persona e quel che si può ammirare di lui, riconoscendo l’artista. Guardando i suoi quadri, vediamo un uomo capace costantemente di trascendere, di farci puntare verso altezze infinite, proprio mentre il suo sguardo ci spinge a scrutare, nell’ombra, accogliere i dettagli così spaventosamente umani delle sue scene. Vediamo un uomo certo presente nell’opera, ma mai ossessionato di sé, sempre capace di andare oltre il piccolo orticello del narcisismo ferito.

Solo questa ferita egocentrica è quello che invece ci resta della biografia di Caravaggio. Gli amorazzi da poco, le risse, i carciofi in faccia, la sfrontatezza, le bastonate, le coltellate, hanno tutti un unico protagonista: un uomo veramente da poco. Chiamiamo genio questo tipo di personaggi, che spaccano in due la loro vita tra quello che sanno dare agli altri e quello che trattengono come cura di sé, ossia veramente poco. Ognuno può pensare alle sue versioni della genialità così espressa.

Quella domenica pomeriggio, a San Luigi dei Francesi, io ho pensato in modo naturale a Diego Armando Maradona, non al Maradona della Mano de Dios nel primo gol all’Inghilterra nei Mondiali del 1986, ma piuttosto l’autore del secondo gol, quello che partì dal centro dal cerchio di centrocampo, scartando due avversari attraverso tutto il campo, che segnò uno dei gol più belli, importanti e memorabili dell’intera storia del calcio, mentre il telecronista argentino veniva progressivamente colto da una crisi di entusiasmo e mitragliava le sue sillabe estatiche che non hanno bisogno di traduzione.

Sembrava che venisse da un altro pianeta, questa capacità sciamanica di trasportare con sé gli spettatori, in un’altra provincia del significato. Come per Caravaggio, confrontiamo questa evidente genialità artistica con l’ancor più evidente imbarazzo morale che ci suscita Maradona fuori dal campo, con le sue amicizie pericolose, le sue paternità negate, la dipendenza da sostanze, il suo inossidabile infantilismo senza tregua.

Caravaggio e Maradona sembrano creature di un esperimento morale ideale. Se fossero solo il frutto di invenzione, sarebbero personaggi sconfortanti, perché dimostrerebbero l’assoluta irrilevanza nel merito: rimarrai comunque un coglione, ma alla fine, anche se hai lavorato duramente per affinare il tuo specifico genio; oppure l’assoluta casualità del destino: puoi essere comunque conosciuto come genio assoluto, anche se hai vissuto una vita da totale coglione. Invece è la loro verità storica, l’indubitabile certezza che vite del genere sono state vissute e possono dunque essere vissute, che ci porta a cambiare atteggiamento rispetto al senso delle loro vite. Non sono state inventate a scopo educativo, non hanno una funzione morale in sé, ma sono piuttosto modelli di azione, non esempi. Contemplando queste storie siamo prima di tutto indotti alla modestia e all’umiltà perché, quale che sia il nostro talento, non coincidiamo interamente con esso: nessuno di noi è interamente coincidente con la propria intelligenza, o bellezza, o agilità, o furbizia, o lucidità, o quale che sia la dote che pensiamo più ci rappresenta.

Le storie di Maradona e Caravaggio sono, almeno per molti e io tra questi, repellenti quanto le loro opere sono piene di bellezza e di attrattiva. Un amico psicologo mi dice che questa frattura nella loro anima sono io a enfatizzarla, e che senza la maschera riprovevole non ci sarebbe stata la luce del genio, che fu tale proprio perché era incarnato in quella storia di piccole miserie.

Probabilmente il mio amico ha ragione, che senza qualche tipo di deformazione dell’anima subita o accaduta in età precoce, la luce del mondo non si sarebbe rifratta in quel modo prodigioso, attraversando i loro corpi. Ho pensato allora a una canzone di Leonard Cohen che amo molto, Anthem, Inno. Il suo ritornello mi dà da pensare ogni volta che lo sento, e dice C’è una frattura, una frattura in ogni cosa: è così che la luce può passare.

In questi giorni pasquali – in cui i cristiani stanno celebrando un uomo morto con la peggiore punizione che fosse stata concepita per la sua epoca, e non potrebbero celebrarne la resurrezione se non ne avessero raccontato l’infame umiliazione che lo portò alla morte – penso che Maradona e Caravaggio sono stati due poveri cristi che hanno vissuto la loro vita come una croce, per concedere a noi la luce della resurrezione nella bellezza di quel che loro sapevano fare, come nessun altro.



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