La festa
Non vi preoccupate, non sono qui per svelarvi come la festa di Natale in realtà sia l’adattamento di un antico rito precristiano; di come l’abete decorato sia un’invenzione ottocentesca probabilmente scandinava; di come in realtà la nascita di Gesù non sia che l’ennesima riproposizione dei dio Taldeitali (a questo punto della predica laica, di solito si fa qualche cenno ai Celti, molto devoti al dio Taldeitali, oppure a qualche “antico culto” di oscura memoria) e di come la data canonica sia il 25 dicembre solo perché coincide con i Saturnali romani che celebravano il solstizio invernale e quindi il ritorno del Sole, di cui Gesù sarebbe un pallido simulacro. E giuro che non vi tedierò con la storia che Babbo Natale ciccione col costume rosso e i bordini di pelliccia sia un’invenzione della Coca Cola, né tantomeno che tutto il bordello natalizio sia null’altro che un trucco del capitalismo che ha bisogno di far circolare merci a vanvera, e allora il potlatch, e allora Lévi-Strauss, e allora signora mia il natale non è mai stato quello di una volta.
Sono tutte cose dette e ridette, che ci vengono fuori dalle orecchie ma che ci piace ripetere soprattutto agli incolti, a quelli che, diversamente da noi, non la sanno lunga, che si fanno ancora abbindolare, i creduloni, gli allocchi, i fessi.
Ecco, per non tediarvi con cose che sapete sicuramente già, vi vorrei solleticare un poco con quei fessi, e la loro parte nella costituzione di una festa bastarda come il natale. In realtà, numeri alla mano, quei fessi cristiani sono tutt’ora la garanzia che il natale venga festeggiato in quanto tale, anche da noi atei militanti, mangiapreti o del tutto indifferenti a quel che dicono quelli lì, i preti appunto.
Per quanto ci si vanti della sua universalità, il natale è celebrato quasi esclusivamente nei paesi con una storica maggioranza cristiana. In Cina, in India e in tutto il mondo a prevalenza musulmana il natale è vissuto come una festività aliena, e praticato anche nelle forme più “commerciali” solo negli ambienti con qualche collegamento storico con il cristianesimo. Del resto, nello spazio geografico islamico il mese di ramadan muove, a livello macroeconomico, cifre del tutto comparabili a quelle natalizie ma non ho ancora letto etnografie del ramadan che ne presentino uno studio come “indagine su una festa paradossale”, come invece sembra dover fare per forza qualunque analisi culturale delle feste cui siamo più abituati da queste parti (cfr. Martyne Perrot, Etnologia del natale. Indagine su una festa paradossale, Milano, Elèuthera, 2008, ed. or. 2000).
Il natale si continua a festeggiare perché c’è un’ideologia complessa e plurimillenaria (il cristianesimo) con tutte le sue stratificazioni istituzionali (dalla chiesa cattolica, a quella ortodossa alle innumerevoli denominazioni protestanti e riformate) i cui aderenti sono convinti che l’unico essere supremo che esiste secondo quell’ideologia abbia deciso, a un certo punto, di prendere forma umana, e quindi credono che valga la pena di riattualizzare quel che loro pensano sia un evento storico.
Tutto il resto, regali, lucine e ciccioni in tuta rossa, discende da quella convinzione e francamente mi risulta piuttosto paradossale qualunque analisi culturale di un qualunque fenomeno che non tenga conto della genesi concettuale locale di quel fenomeno. Ovviamente non basta dire che “tutto il resto”, le lucine, i pacchi e l’ipocrisia mercantile, abbiano preso il sopravvento e tengano in vita una festa altrimenti spacciata, perché non è vero: non ha alcun senso dire che i saturnali hanno smesso di essere celebrati perché sostituiti dal natale, dato che il natale non è i saturnali, e i saturnali festeggiavano altro e hanno smesso di essere celebrati perché la gente aveva smesso di credere a quel che dicevano, cioè aveva smesso di voler riattualizzare quel che il racconto dei saturnali sosteneva. Ma, si dice, la “radice” è la stessa. Che riti diversi possano, in radice, celebrare la stessa cosa è da un lato un truismo (come dire che il linguaggio non può che parlare del mondo come lo vedono gli umani) e dall’altro un’idiozia che nega il valore specifico dei riti specifici e delle credenze specifiche.
Se non ci fosse stato, da parte di una specifica ideologia, il riconoscimento del valore paradigmatico di un evento storico (l’incarnazione di Dio nel corpo di un neonato ebreo all’incirca duemila anni fa) non staremmo qui a mettere festoni, adornare l’albero e scambiarci paccottiglia confezionata.
Le feste sono i punti di sutura che le culture inventano per tenere assieme i brandelli del tempo delle nostre vite, e le feste parlano e ci parlano (“ci” qui si legga transitivamente, non come complemento di termine) al di là delle nostre intenzioni e molto, molto al di là della nostra volizione individuale. Accettare questo dato di fatto antropologico, senza scrollare le spalle con un finto senso di superiorità, forse ci consentirebbe di vivere meno spaesati, meno distratti.
Forse, ecco, dovremmo prestare un po’ più di attenzione a quel facciamo, quando lo facciamo, e non chiamarci fuori con “non ci credo”, proprio mentre decoriamo la tovaglia con quell’orribile portacandela di aghifoglio plastificato.
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