Si avvicina il momento dello scambio di doni – formula apparentemente ossimorica e che a chi ne mangia un poco di antropologia fa già storcere il naso, poiché richiama due modi di appropriazione delle risorse diversi: quello dello scambio, connesso al modo in cui circolano le merci e quello del dono, che se puro, ossia fatto senza chiedere nulla in risposta (Dio che dà la vita ndr), è considerato il massimo sacrificio: la purezza del disinteresse di un’azione volta al bene dell’altro nella perdita dell’Io.

Il fatto è che il periodo natalizio ci porta a quella peculiare pratica che gli antropologi definiscono dono orizzontale: una regalia libera, ma che poi alla fin fine tanto libera non è, e che invece nasconde un complesso gioco di equilibri relazionali.

Avete presente quella sensazione di disagio che si prova quando si riceve un dono inaspettato o percepito come di grande valore?

Quel disagio è dovuto dal fatto che l’accettazione di un dono comporta per il donatario l’ingresso immediato in una condizione di debito nei confronti del donatore, almeno finché il dono non venga ricambiato. Quel disagio aumenta proporzionalmente al valore del dono e alla distanza affettiva tra donatore e donatario, dato che, finché non si riuscirà a ricambiare, ci si sentirà inevitabilmente legati (se non in un rapporto di dipendenza) con il donatore.

Solo il rifiuto o il pareggio dei conti potrà liberare il donatario da quel legame o da quella condizione di debito/dipendenza.

Ovviamente non si può ricambiare in modo equivalente qualcosa di non quantificabile in termini numerici, come un bel gesto o un favore — ed è il motivo per cui ai regali di Natale e di compleanno togliamo il prezzo e lo scontrino. Quindi, chi vuole svincolarsi dal donatore e liberarsi dalla condizione di debito/dipendenza, non può che rifiutare o, peggio, prendere e poi sparire, oppure rubare, tradire.

Chi invece è interessato al proprio donatore, accetta quella condizione di temporaneo squilibrio per rinnovarlo, donando a sua volta qualcosa di valore simile, possibilmente maggiore per invertire, di nuovo temporaneamente, i termini dello squilibrio. Sopravanzare il valore del dono ricevuto attraverso un dono offerto successivamente è l’unico modo che si ha per liberarsi del debito e della dipendenza senza liberarsi dalla relazione con la persona.

Infatti quando un oggetto, una prestazione o qualsiasi altra cosa passano “in dono” da una persona a un’altra, vengono accompagnati dalla possibilità che si instauri — o si inspessisca — un legame tra il donatore e il donatario. È questo il fine cui sono interessati i doni: la relazione.

Il rifiuto o l’accettazione di un dono comporta necessariamente il rifiuto o l’accettazione di una nuova relazione, o un impegno a svilupparne, arricchirne e cementarne una già esistente.

Ecco che, dall’idea che il dono sia una delle azioni più libere, spontanee e disinteressate con cui un essere umano possa rivolgersi a un altro e comunicargli quanto sia disposto a dare, ad esserci, senza voler niente in cambio, siamo giunti a constatare come il dono in realtà assuma tutte le caratteristiche dell’intenzione e dell’interesse, dell’amore e del bisogno, così come della dipendenza e dell’assoggettamento.
Il Cavallo di Troia non era un dono? E la mela di Eva? E il vaso di Pandora?

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