Qualche giorno fa, nel chiostro della Abbaziale di Sant’Anselmo, in cima al Colle Aventino di Roma, ho registrato un video che contiene un certo numero di domande sul potere: chi esercita il potere? Come lo esercita? E perché certi esercitano il potere e certi altri no?
In un’abbazia, per esempio, c’è l’abate e c’è il priore, ci sono gerarchie di potere: c’è chi comanda e c’è chi tendenzialmente quegli ordini esegue senza pensare di doverli contestare o sentirsi in diritto di contestarli.
In giro per il mondo, gli uomini in qualunque modo si aggreghino formano gerarchie di potere.

È vero che c’è spazio per il disordine nel mondo in cui viviamo, ma in generale non viviamo in un caos di decisioni personali autonome, e se ci pensate, anche la persona più recalcitrante a qualunque sistema d’ordine si scoccia la terza volta che l’autobus non passa, o un servizio non viene garantito. Perché viviamo di questo: del fatto che possiamo essere particolarmente ostili a forme canoniche di potere, ma se una persona che incontriamo comincia a blaterare sillabe senza senso in nome della sua libertà di espressione ci infastidisce. Perché? Quella persona si comporta non adeguandosi a una convenzione sociale, ossia null’altro che una norma socialmente implicita.

All’interno di una città o di uno stato nazionale, possiamo fare varie considerazioni sull’esercizio del potere, ma tutte non possono prescindere dal potere come sorgente. È come se come umani fossimo consapevoli che ci sia la sorgente, che c’è qualcosa di legittimo nel potere. I regimi democratici si sono troppo spesso dimenticati di questo, mentre i regimi teocratici tendono molto spesso a sfruttare quell’origine sacra  del potere per biechi interessi materiali. Tutti però sappiamo sotto pelle che quel potere affonda le radici nel profondo della nostra relazione con la realtà in quanto animali simbolici dotati di un dispositivo di produzione di senso: le relazioni di potere sono un altro dispositivo attraverso il quale cerchiamo di capire il senso del mondo.

L’antropologia ha riflettuto a lungo sulle relazioni di potere; nel monumentale On Kings, scritto da David Graeber e Marshall Sahlins e tradotto da me insieme a due cari amici e colleghi, Simone Cerulli e Chiara Cacciotti, gli autori cercano di risalire alle sorgenti di quel potere, e io non posso che pensare a Roma come città, spazio in cui il potere si esercita in forme diverse ma comunque continuative: perché la città muore, se non trova forme di esercizio del potere.

Nella relazione con la città, intesa come metafora della vita associata, la persona può sentirsi in una relazione di sudditanza o di cittadinanza. Il suddito ha con

il potere una relazione contrastiva, considera il potere come Il grande altro, direbbe Žižek, come alterità assoluta dell’umano. Il cittadino, al contrario, si sente

parte e artefice di quel potere: non lo subisce e basta, si sente parte di quella azione.

Il modo in cui oggi l’informazione circola ci consente di concepire il potere in maniera ancora più co-prodotta rispetto ai modelli democratici di due secoli fa. È questo il senso della democrazia, veicolato anche in un sistema dei mass media, e forse è anche quel che intendeva Foucault quando parlava di potere: non pensava a una cosa esterna che subiamo, ma a una co-produzione in cui noi stessi generiamo potere. Il potere è il mezzo-ambiente attraverso cui si formano le cittadinanze, le identità e le appartenenze. E noi cosa vogliamo essere, più sudditi o più cittadini? Vogliamo subire il potere oppure vogliamo renderci conto che il potere in piccole porzioni lo produciamo, quindi non si tratta solo di contestarlo, ma di esercitarlo e di gestirlo con intelligenza e con passione nei piccoli spazi in cui ognuno di noi è chiamato a esercitarlo?
Ne parlo in QUESTO video su Instagram.

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