Se n’è parlato davvero in tutti i modi e in tutte le lingue del mondo: la morte di Berlusconi ci spinge a riflettere sul senso della parola “politica” e sui suoi protagonisti. 

Le mie considerazioni partono da due letture particolarmente preziose sull’argomento, un articolo di Fabio Dei pubblicato sul Manifesto, e la “cronaca profonda” del funerale di Berlusconi raccolta da Tiziano Scarpa su Domani. 

La premessa che forse anticipa lo sguardo con cui mi trovo a giudicare Berlusconi dall’inizio della sua entrata in politica è questa: tra il 1994 e il 2000 sono stato in Italia solo per brevi periodi, e mi sono quindi perso (visto che il mio compito era allora di comprendere i contesti culturali non italiani in cui facevo ricerca) il grosso dell’impatto mediatico in Italia del Berlusconi politico e presidente del consiglio. Prima dell’autoproclamata discesa in campo,  appartenevo per scelta alla categoria “io non guardo la televisione”, e quindi almeno al livello cosciente il “modello Drive-in” aveva avuto poche opportunità per radicarsi nelle mie abitudini. Mi sentivo piuttosto distaccato dal personaggio, una sorta di osservatore esterno. Questo non ha impedito al mio inconscio di essere profondamente colonizzato da Berlusconi, dato che il mio psicologo di quegli anni (e per molti anni a venire) si è dovuto sorbire molti sogni (e incubi) in cui il Cavaliere appariva nei sogni altrui come un’ambigua figura dell’autorità, della paternità, della virilità e del successo. 

 

Berlusconi e i sogni

In effetti, la questione del rapporto tra Berlusconi e il mondo dei sogni può essere presa come punto di partenza. Tiziano Scarpa sostiene che il progetto di Berlusconi non è stato quello di concepire a freddo una campagna di penetrazione culturale efficace dal punto di vista economico, ma piuttosto quello di realizzare il suo sogno privato: Drive-in, le vallette, lo sport vincente ad ogni costo, le battute grossolane, il machismo da bar, non erano il frutto cogitato di una strategia commerciale, ma solo quello che Berlusconi amava davvero, erano quel che lui voleva vedere e sentire. Siamo stati tutti, a diversi livelli, intrappolati nel sogno di Berlusconi, nel suo proprio sogno, o al massimo abbiamo iniziato a vivere come nostro incubo il suo sogno… 

La prima lettura a caldo che se ne potrebbe fare è lievemente paranoide, e vede nell’abilità di un imprenditore di realizzare i suoi sogni volgari alle spalle di molti il sintomo più evidente del “potere del Potere”: cioè della capacità di chi detiene i mezzi di produzione dell’immaginario di imporre la propria visione con una ferrea logica egemonica. B. aveva i soldi, B. ha fatto come cazzo voleva, imponendoci la sua orrida concezione estetica. 

C’è però un’altra lettura che si potrebbe dare, ed è la lettura che vorrei sostenere perché la sento più genuinamente antropologica. Secondo questa lettura i pensieri (e quindi anche i sogni, che sono un tipo bizzarro di pensiero o più generalmente di attività mentale) sono interessanti solo se sono significativi, sono cioè intrisi di significato; ma il significato, ci insegna la filosofia del linguaggio da circa un secolo, dalle riflessioni cioè del secondo Wittgenstein, è pubblico, è cioè una costruzione sociale condivisa almeno da qualche porzione “significativa” – appunto – della società entro cui quel significato circola. 

In sostanza, secondo questa interpretazione (decisamente più caritatevole della prima), B. non ha imposto il suo modo di essere e realizzato il suo sogno ficcandolo a forza nelle menti italiote, ma è piuttosto entrato in sintonia con l’anima del popolo (o almeno con qualche anima del popolo) dandogli il sogno comune e condiviso, in una forma compiuta ed esperienziale. La gratitudine del popolo berlusconiano è prodotta proprio da questo tipo di messa in scena del proprio sogno. 

Potremmo addirittura considerare questa la vocazione estetica del berlusconismo profondo: come un artista premoderno, B. non vuole essere creativo attraendo l’attenzione sulle proprie qualità di produttore originale (quanto è bravo! Quanto è originale!); preferisce invece che le persone si godano in formato ready made i sogni adolescenziali della tarda modernità post-bellica italiana: sesso facile, soldi, successo, ville, feste, risate sguaiate. B. sarebbe stato allora un artista in chiave pre-moderna, assumendo su di sé il compito di rappresentare, incarnandolo, il sogno di un popolo (ok, di qualche tipo specifico di popolo…). 

Secondo una tale visione, il vitalismo berlusconiano è dionisiaco in modo profondo, non si contenta del materialismo spicciolo di chi rinuncia al Cattolicesimo tridentino ma va ben oltre, cioè ben prima, a sondare quegli spazi dell’immaginario non ancora ristretti nel privato dell’individuo, ma ben radicati nella dimensione collettiva. Che poi B. ci abbia costruito un impero colossale, su questo immaginario letteralmente volgare, è un segno del suo essere un uomo che ha incarnato lo spirito del suo tempo, e in questa sagacia nel cogliere la forza della comunicazione televisiva non è stato molto distante da un altro grande genio anche più precoce in questo campo, Giovanni Paolo II.

B. aveva insomma capito che il campo si poteva coltivare, anzi si poteva sfruttare alla grande, ma non ha inventato lui il campo, e semmai si è limitato a trasmetterlo con il suo essere naturaliter telegenico; per questo trovo alquanto riduttiva la lettura moralista che molti hanno dato dell’omelia dell’arcivescovo Delpini, come se il suo compito fosse stato quello di giudicare l’uomo B. L’arcivescovo non ha rinunciato al suo ruolo ministeriale, ma l’ha piuttosto eseguito nel migliore dei modi, che è quello di riconoscere prima di tutto quel che ci fa umani di fronte a Dio. 

Ci piaccia o meno, B. ha incarnato per molti anni la doppia faccia del potere come ce l’hanno raccontato Sahlins e Graeber nel Potere dei re. B., come ogni vera figura regale, incarnava assieme la Regalità Divina e la Regalità Sacra. 

 

Regalità divina

La prima è la capacità di essere per davvero un soggetto di potere, cioè di essere un umano che si fa attraversare dalla sorgente del Potere, che non può che essere sovrumana nella sua origine più profonda. Da sempre, dice Sahlins, gli uomini e le donne sanno di non avere un vero controllo del mondo: non possono decidere quando nascere e quando far nascere, ad esempio, quando le loro azioni saranno segnate dal successo o dalla sconfitta, e per quanto possano impegnarsi al massimo, dietro l’angolo si affaccia sempre il “complesso di Caino”, vale a dire la terribile consapevolezza che il proprio sacrifico non sia gradito (agli Altri, al Fato o a Dio) e che quindi il nostro sforzo, in qualunque direzione, sia votato al fallimento. I soggetti dotati di potere, alla luce di questa amara consapevolezza, devono poter dimostrare che l’origine del loro potere è certa. Ecco allora “l’unto del Signore”, il costruttore di Piramidi funerarie, il finanziatore di olgettine, il promulgatore di editti bulgari, ma anche lo sfacciato trapianto di capelli, il lifting e il cerone come assurda garanzia che “vivrà fino a 120 anni”, e in generale il principio vitalista e giovanilista espresso in una genuina volontà di potenza 

Può non piacere a molti (spesso non piace affatto ai progressisti questa visione del potere, e meno piace quanto più si è radicali nel proprio progressismo) ma questa concezione è fondamentale nelle lotte politiche di ogni tempo e luogo, perché è attraverso questo fascino spesso vergognoso di sé (il “timor sacro”) che si genera il consenso politico. 

 

Anti-Berlusconismo e Sacralità Contenitiva

Lasciata a sé stessa, questa Regalità Divina tracima sistematicamente nella follia dell’onnipotenza, nel delirio dell’impunità, nell’incesto (cioè nel narcisismo che da patologia si fa crimine), nel male gratuito, nel cannibalismo non sempre simbolico, per cui il tenutario del Potere Divino deve costantemente alzare la posta come prova e garanzia, appunto, del suo essere davvero tenutario, e non un impostore capitato lì per caso.

Per questo gli uomini hanno sempre circonfuso il portatore di potere di un’aura di Sacralità contenitiva, di inibizioni, costrizioni, ritualismi. L’anti-berlusconismo militante ha lavorato sistematicamente in questa direzione sacralizzante, che diventa più chiara se ci si rammenta che Sacro è considerato, in senso tecnico, ciò che è separato, ciò che non può esercitare il suo potere se non attraverso qualche filtro costrittivo. Non serve citare il filone agambeniano dello homo sacer e basta un po’ di vecchio Durkheim per riconoscere come sacralizzanti in questo senso una lunghissima serie di azioni politiche anti-berlusconiane: dal preludio di Mani Pulite a “non si interrompe un’emozione” del referendum sulla pubblicità televisiva; dal girotondismo ai No Cav Day; dall’ossessione giudiziaria al popolo viola, fino alle asfittiche sardine. Non si tratta di piangere il B. innocente (B. è stato tutto fuorché innocente, nella sua vita) ma di riconoscere che l’antiberlusconismo, come sentimento popolare, non è mai stato davvero più popolare del berlusconismo, e non aveva il fine di perseguire la giustizia o di difendere la legalità, quanto piuttosto di contenere la tracimazione di un potere percepito come illegittimo 

Questo antiberlusconismo ha sempre assunto come prova della giustezza delle sue posizioni proprio quegli aspetti del potere berlusconiano che i devoti del Cavaliere hanno invece raccolto come segni evidenti della sua investitura “divina”, nel senso qui descritto. Gli eccessi, che per gli uni erano cafonaggine, per gli altri erano garanzia di autenticità, e le violazioni delle regole, che gli uni leggevano come null’altro che crimini, gli altri hanno visto come prova di eccezionalità, e quindi certezza che quel potere, così espresso – proprio perché così espresso – sarebbe stato benefico per loro, portando fecondità e prosperità come un rito religioso ben eseguito. 

Naturalmente questa lettura non scalfisce neppure il senso effettivo di un personaggio pubblico tanto importante per vita culturale (oltre che politica ed economica) dell’Italia, e molte altre cose si dovranno dire e comprendere negli anni a venire. 

Ciascuno di noi ha, nel suo intimo, il giudizio morale che si sente, ma forse tra di noi, nello spazio pubblico, c’è ancora tanto lavoro di comprensione da fare. B. ha influenzato un pezzo significativo della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo, come imprenditore e come politico. Ridurlo a un meraviglioso innovatore sociale o a un vergognoso farabutto non ci aiuterà a comprendere un po’ meglio i meccanismi di base della nostra cultura e di quella che, ci piaccia o meno, è la società italiana. 

Dobbiamo capire più a fondo B. e – mi rivolgo qui ai miei colleghi studiosi di scienze sociali – questo significa rinunciare davvero al giudizio morale, a volte confuso con l’esercizio del pensiero critico, e attivare quel lavoro di analisi del contesto che ci caratterizza, unico modo per comprendere cosa ha portato all’emergere di una figura così bizzarra e così straordinaria. 



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