Nel nostro mondo laico e secolarizzato, e quindi costretto alla mancanza di senso, viviamo in uno stato d’assedio del vivente. La cittadella della vita umana somiglia a un fortino dentro cui tratteniamo i nostri pensieri, le nostre playlist, i nostri podcast e i nostri affetti, finché durano; tutto intorno c’è il progressivo nulla della Morte che consuma nel correre del Tempo quegli spazi vivi, per ciascuno di noi. 

Una tale concezione della Vita vede nella non-Vita e soprattutto nella Morte null’altro che la sua negazione, non uno spazio con una sua specificità, una sua natura. Se X non è più biologicamente vivo, in questa concezione esclusiva del vivente, semplicemente X non è più, dato che viviamo nella paradossale condizione che solo ciò che è inerte, proprio quella che definiamo l’insensata materia, può sostenere come un veicolo il senso del vivente. 

Questa condizione ricorda il paradosso del Visconte dimezzato di Italo Calvino. Tutto il bene si colloca da una parte, tutto il male dall’altra, e nessuna successione li unisce, nessuna continuità. Anzi, tutto è de-ciso (cioè tagliato via) in modo rigoroso, o di qua o di là, e tra quel che privilegiamo (il Medardo buono) e quel che invece respingiamo (il Medardo cattivo), non vi è alcuna comunicazione: i due si ignorano, con la conseguenza che nessuna delle due metà riesce a compiere il suo scopo e la sua missione, proprio per il fatto che è inconsapevole dell’esistenza e della natura dell’altra. 

Questa condizione, questo scisma tra Vita e Morte, non è però una condizione necessaria o inevitabile della nostra specie. Molte forme di vita umana si sono infatti sviluppate attorno all’idea opposta, che cioè vita e morte siano due modi piuttosto rustici per mappare un piano cosmico ben più fitto di interazioni e punti di passaggio. 

Le culture tradizionali hanno rappresentato questa continuità tra vivente e non vivente in vari modi: alcune hanno collegato la Vita alle Cose, attribuendo qualche anima agli oggetti, in quel tipo di animismo che abbiamo chiamato feticismo (Marc Augé, da poco scomparso, ha scritto un libro molto importante su questo tema titolandolo proprio Il dio oggetto); altre hanno traportato la Vita oltre la Morte scendendo a patti con la figura dell’Antenato, un essere che è sicuramente animato ma la cui vitalità non è più contenuta in un corpo fisico interattivo. 

In questa ultima concezione, quelli che noi pensiamo come irrimediabilmente altri, i morti, sono invece traslocati sicuramente altrove, ma senza aver perso gran parte dei loro tratti temperamentali, o competenze, o capacità. Un buon vecchio artigiano, una volta trasferito nel suo ruolo di antenato, non potrà certo più produrre le sue opere, ma sarà ancora in grado di giudicare il lavoro altrui, come pure saprà dare un consiglio, a volte anche non richiesto. 

L’atteggiamento dei vivi nei confronti dei morti in questi contesti culturali non è qualitativamente diverso da quello che si mantiene nei confronti degli anziani: tutti sono parimenti degni di attenzione, ma ad alcuni ci si rivolge con maggior deferenza che ad altri, proprio sulla base delle caratteristiche specifiche del singolo individuo. Alcuni anziani sono concepiti come una ricchezza che il tempo e il destino ci hanno resi disponibili; altri invece sono vissuti come un peso, una noiosa scocciatura impostaci dal fato.  

Con la morte non assistiamo a una vera transizione di status per queste persone, e vediamo piuttosto una cristallizzazione dei ruoli reciproci. Come Coco, la centenaria nonnina che dà il titolo al film Pixar del 2017, gli anziani di un gruppo assurgono al ruolo di antenati dopo la morte solo a condizione che avessero già iniziato in vita questo passaggio. Non è la Morte, dunque, almeno in questi contesti culturali, lo spartiacque tra anziani e antenati, ma piuttosto la Vita, intesa come ritorno morale dell’investimento sociale che si è fatto delle proprie qualità, quali che siano. 

A noi viventi spetta il ruolo ermeneutico per eccellenza, cioè quello di riconoscere in che misura e in quale direzione i nostri morenti e morti hanno iniziato a diventare antenati, cioè punti di riferimento, traguardi, unità di misura. Il fatto che giungano alla morte non dovrebbe di per sé cambiare molto nella nostra considerazione di loro come nostri antenati, almeno in quelle culture per cui, come dicevamo, Morte e Vita si dispongono in una continuità non fratturata in modo univoco. 

Nella nostra società invece, laica e miscredente, il passaggio della morte sembra il punto da cui un bivio si diparte. A destra si apre il cammino dell’Idealizzazione del morto, la sua mistificazione nel ricordo e nella narrazione del “caro estinto”, di cui rimane solo un effetto retorico, il generatore del compianto, la nostalgia di inesistenti bei tempi andati, una narrazione stucchevole che solitamente imbarazza gli astanti e chiunque non abbia bisogno di partecipare a questa idealizzazione. A sinistra invece si sviluppa il cammino dell’Oblio, dell’indifferenza cinica, la damnatio memoriae che non ha neppure bisogno di un decreto ma si impone per andazzo, nell’indifferenza cinica dei suoi produttori, che scandalizza e ferisce chi non la condivide. 

Per poter proseguire come esseri umani vivi ancora meritevoli di questo epiteto dobbiamo riprendere il legame con i nostri morti (e con la morte in generale), in una continuità a cui non siamo più abituati e rapportarci con loro con maggiore naturalezza, imparando di nuovo a rispettarli e ascoltarli, quando se lo meritano, ma anche a rimbrottarli o a litigarci, quando necessario. Quel che non dobbiamo più fare è ignorarli in toto in quanto morti, relegati nello spazio del non essere. Per fare questo abbiamo paradossalmente bisogno di un po’ di buon senso pratico, che possiamo imparare dai racconti degli antropologi sul campo. 

Maurice Bloch, oltre vent’anni fa, si chiedeva se e quanto le credenze religiose siano controintuitive, vale a dire irragionevoli e contrarie al buon senso. Lavorando nei villaggi rurali del Madagascar si è reso conto che la pratica religiosa può assumere forme alquanto banali, e che il rapporto con quelli che noi abbiamo imparato a chiamare “esseri soprannaturali” sa essere piuttosto ordinario e caratterizzato da toni quasi comici nell’esercizio della quotidianità. Gli antenati, in particolare, vengono trattati da contadini malgasci come fossero dei vecchi un po’ duri d’orecchio, per cui quando è richiesto il loro parere o intervento, i vivi cercano di farsi ascoltare parlando con un tono di voce più alto. 

Per quel che vale poi la mia testimonianza, ricordo in Macedonia greca una vecchina che, pregando di fronte all’altarino che si era fatta nella cucina della sua casa, parlava ai suoi antenati come se fossero davvero lì presenti, e anche con Dio padre aveva un rapporto estremamente confidenziale, rivolgendosi a lui sempre con il vezzeggiativo: theoùli mou, “mio deuccio”. 

Questo possono essere i nostri antenati: uno spazio di confidenza che tiene a bada la paura della morte con la consapevolezza che la vita, per noi umani, trova tante strade per procedere, anche quando la biologia non la sostiene più. Questo vogliamo fare, con Kami: recuperare un po’ di intimità con i nostri antenati, per non lasciarli soli e smettere di sentirci così maledettamente infreddoliti nel buio delle nostre vite. 

 

Per approfondire:
  • Il Visconte dimezzato, Italo Calvino, Einaudi, 1951
  • Coco, Disney Pixar (2017)
  • Il dio oggetto, Marc Augé,Meltemi, 2002
  • «Are Religious Beliefs Counter-Intuitive?» saggio di March Bloch in Radical Interpretation in Religion, di Nancy N. Frankenberry, Cambridge University Press, 2002


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