Per poter ragionare sul modo in cui antenati e rituali possono auspicabilmente entrare in relazione, e su quel che accade al nostro modo di vivere associato da quando questo non accade,, possiamo partire da due “definizioni brevi”:

  • Antenato: una persona o meta-persona che ha avuto un ruolo nel determinare la nostra esistenza per come la viviamo, percepiamo e narriamo a noi stessi e agli altri.
  • Rituale: una sequenza di azioni apprese o comunque cristallizzate nella loro
    sequenza indipendentemente dal valore funzionale che vi cogliamo


Se queste definizioni sono comprese in modo nitido, dovrebbe essere evidente che i rituali sono la grammatica con cui parliamo agli antenati. Il cacciatore della foresta equatoriale che affila le sue armi pronunciando formule magiche per garantirsi una caccia efficace sta in effetti comunicando (anche) allo spirito della sua potenziale preda, e fa in modo che le azioni che compie gli consentano di ottenere vantaggio da questa comunicazione. Il sacerdote che sacrifica il frutto più bello per il dio che ne aspira il fumo di combustione compie un rito che gli permette di comunicare con quell’essere meta- umano, che nelle religioni tradizionali occupa lo stesso spazio morale degli antenati (e spesso, anzi, è null’altro che un antenato del gruppo, tanto potente da essere stato
divinizzato).

La candela che mia zia vedova ancora accende “all’altare dei morti” e le piccole offerte di fiori che cospargono le città italiane nei pressi dei capitelli e delle edicole sacre sono offerte rituali con cui si onorano persone e meta-persone in funzione di antenati.


Gli antenati, dicevamo in un altro post, ci circondano con le loro opere e le loro parole. Possiamo chiamarli dei, spiriti, folletti, anime, perfino energie, ma la loro è una medesima sostanza: sono entità che ci pensano, che tra loro possono comunicare, che spesso abbiamo conosciuto, che a volte altri ci hanno insegnato ad amare senza averle mai viste “di persona”. Non sono sempre benevoli, tutt’altro, e spesso anzi si comportano male, manifestando il loro potere nei nostri confronti con dispetti, o vere cattiverie. Ma possono essere di enorme sostegno quando ci prendono sotto la loro ala protettrice, e ci lasciamo guidare da loro.

Antenati e rituali sono stati separati nettamente nella nostra cultura moderna e ancor più tardo-moderna: gli antenati riposti nelle soffitte delle nostre ambizioni, e i rituali ridotti a nevrosi individuali. La grammatica con cui potevamo parlare alle meta-persone che ci hanno costituito è rimasta intrappolata a brandelli nei versi dei poeti, nei sogni dei pazzi e forse in qualche manuale di folklore islandese, ma noi normali, noi comuni, noi ragionevoli ne abbiamo smarrito il senso e non ne riconosciamo più il valore. Gli antenati hanno smesso di parlarci perché non sappiamo più articolare qualche rituale di comunicazione con loro, abbiamo smarrito il codice, tutto è diventato talmente nitido nel mondo della materia pura e semplice, che non ci capiamo più nulla, così che sembra davvero non ci sia nulla da capire.

Eppure ancora stanno lì, a darci il tormento delle notti insonni, ad assalirci con sentimenti di cui non comprendiamo l’origine, a farci guardare perplessi nello specchio perché non riconosciamo più quella cosa che vediamo. Gli antenati hanno ancora voglia e soprattutto bisogno di parlare con noi. Come archeologi del linguaggio, dobbiamo riprendere in mano una lingua morta, e provare a strappare i riti degli antenati alla polvere del nostro oblio.

Facciamolo per noi vivi, se non per loro morti.



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