“We can beat them, just for one day 

We can be heroes, just for one day” 

[David Bowie] 

In Vita di Galileo, la famosa opera teatrale di Bertold Brecht, a un certo punto il giovane Andrea, che Galileo aveva istruito nelle sue scoperte fin dalla fanciullezza, dice amaramente:
– Sventurata la Terra che non ha eroi!
Andrea si lamenta del fatto che Galileo sia tornato dal processo dopo aver abiurato pubblicamente, soprattutto Galileo riceve dunque gli insulti di Andrea (“Otre da vino! Mangialumache! Ti sei salvata la pellaccia, eh?”) e gli risponde con una frase che è diventata memorabile, anche per essere stata da allora usata in molte lingue come bandiera dell’antimilitarismo, e in generale del contrasto a qualunque concezione bellicosa della virilità:
No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.

Visto lo stato d’animo che lo muove, Andrea sta dicendo: Bisogna mantenere fede alle proprie idee e, più di tutto, bisogna continuare ad essere di esempio ai giovani. Tu, Galileo, mi hai insegnato per dieci anni la verità, mi hai istruito a usare il cervello come uno strumento di libertà, e ora sei venuto meno a quel tuo impegno: io sono sventurato, adesso, perché io ho ancora bisogno di un eroe, di un modello.
Visto lo stato d’animo che lo muove, Galileo invece sta dicendo: il potere dell’oscurantismo può essere tale da spezzare la resistenza degli uomini che hanno paura del male fisico, che temono il sacrificio, gli uomini comuni. Io, come loro, non sono un eroe, non mi immolo e trovo che sia ingiusta una terra che abbia bisogno di questo genere di eroica sventatezza.
Ecco, allora, che nell’opera di Brecht possiamo trovare due tipi di eroe, assai diversi tra loro. Eroe1 è quello di Andrea, il modello, l’esempio. Eroe2 è quello di cui parla Galileo: la vittima sacrificale, costretta a immolarsi per la salvezza degli altri.

Gli esseri umani, ci racconta la ferocia della politica, hanno sempre cercato di sbolognare i loro problemi a Eroe2 (da Muzio Scevola a Pietro Micca a Giovanna D’arco e oltre), l’uomo (raramente la donna) forte che si accolla la rogna, che butta il cuore (o la stampella) oltre l’ostacolo, che non teme la morte anzi: che ama la morte. Questo, diciamo, è “l’eroe del dominio”.

Ma l’antropologia ci racconta invece un’altra storia, fatta di esseri umani che si guardano intorno alla ricerca di Eroe1: qualcuno da imitare (non da mitizzare) e dal quale ottenere sostegno. Questo è “l’eroe del prestigio”.

Sappiamo con sufficiente certezza che gli esseri umani hanno una inclinazione naturale a imitare gli eroi del prestigio e a guardare con un misto di riverenza e sospetto gli eroi del dominio.
Joseph Henrich, che insegna antropologia evoluzionistica a Harvard, sintetizza così questa distinzione:

“Gli individui di status inferiore prestano attenzione a (cioè guardano e ascoltano) e imitano di preferenza gli individui prestigiosi, ma non quelli dominanti. Tale attenzione e imitazione è solitamente automatica e inconscia, e può riguardare anche il mimetismo corporeo, che svolge due funzioni separate. Per prima cosa, il ricopiare può essere un modo inconsapevole di esprimere rispetto, di riconoscere cioè il maggior prestigio di una persona. È così perché gli altri sono sempre alla ricerca di indizi rispetto a chi viene imitato, per cui un mimetismo accentuato può rafforzare in modo efficace il prestigio della persona che viene copiata. Inoltre, l’imitazione è uno strumento che impieghiamo per entrare più facilmente “nella mente altrui”, per comprendere cioè i loro gusti e le loro preferenze”

Se avete in camera il poster di Roger Federer (o di Serena Williams, o di Francesco Totti, o di Chiara Ferragni o di Alekos Panagulis) dunque, direi proprio che va bene così. Fin quando, almeno, non lo tratterete come un improbabile amuleto per le vostre disgrazie (Eroe1) e vi contenterete di prenderlo a modello che vale la pena di imitare e di cui, come umani, avremo sempre bisogno (eroe2). C’è da dire poi che ognuno ha l’eroe che si merita. Ma quello è un altro paio di maniche.



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