La recente tragedia di Ischia lascia sgomenti per diverse motivazioni:

  1. è stata, in buona misura, una tragedia annunciata, come conferma anche la denuncia dell’ex sindaco di Casamicciola;
  2. è stata preceduta da episodi di fatto ascrivibili alla stessa tipologia, in anni recenti, più volte: solo negli anni Duemila, tre frane con vittime;
  3. i punti 1 e 2 sono stati ignorati a tutti i livelli della cosiddetta classe politica dirigente, che ha preferito pensare alle sue sorti elettorali più che alle vite degli elettori.

Ma non è compito di chi non ha conoscenze e competenze specifiche denunciare le cause effettive e le responsabilità individuali dei danni e delle morti. Ai comuni cittadini, invece che giudicare (cosa che faranno i professionisti appositi) spetta piuttosto il compito di comprendere quel che è successo. Comprendere, quando si tratta di esseri umani coinvolti, significa interpretare le cose dal punto di vista delle persone coinvolte, più che pretendere di imporre un senso dall’esterno. Come possiamo comprendere, allora, le morti e la devastazione di Ischia? Qual è in quadro culturale, la visione del mondo che rende possibili simili accadimenti?

Partiamo dall’azione primaria degli esseri umani: abitare. Tutti gli esseri viventi devono abitare lo spazio in cui vivono, nel senso che devono entrarci in rapporto, devono imparare a conoscerlo, comprenderne le minacce, coglierne per tempo i pericoli. Se non lo fanno non hanno la minima possibilità di sopravvivere. L’idea di casa è il meglio che gli umani sono riusciti a inventare per compendiare tutte queste azioni di conoscenza, controllo, e valorizzazione del territorio abitato. “Casa” per gli umani ha significato uno spazio massimamente sicuro in quell’ambiente, ottimamente conosciuto in quel contesto, il migliore per produrre e gestire le risorse del proprio gruppo di riferimento. La proprietà non aveva nulla a che fare con quest’idea e sono innumerevoli i gruppi culturali che non hanno mai pensato che si potesse possedere individualmente la casa più che non si potesse possedere l’aria, o la luce solare. Il mondo in cui viviamo dà invece per scontata questa tendenza alla privatizzazione, una pulsione considerata naturale dell’essere umano a possedere il luogo che chiama casa. Non c’è ovviamente spazio qui per raccontare la storia di questa trasformazione, ma è evidente che a Ischia qualcosa è andato storto alle pendici del mondo Epomeo. Possedere una casa è diventato il fine primario, al di là del fatto che poi “la casa” svolgesse o meno la sua funzione di spazio abitato, cioè sicuro, cioè conosciuto, cioè non intrinsecamente pericoloso. Abitare è finito per coincidere con il possedere uno spazio in modo esclusivo, invece che entrare in un rapporto stabilmente sicuro con quel territorio: un cambio di significato che ha prodotto quel che purtroppo abbiamo visto.

Ma sarebbe stupido, oltre che ingiusto, attribuire la tragedia esclusivamente a questo cambio di concezione dell’abitare, e dobbiamo aggiungere un’altra, diversa, interpretazione culturale subentrata, questa volta attorno al senso di un’ulteriore azione primaria compiuta dagli umani: lavorare. Gli esseri umani lavorano nel senso che, nello spazio in cui abitano, interagiscono tra di loro e con l’ambiente per poter condurre la loro vita, guadagnarsi la pagnotta, come si dice informalmente. Lavorare significa quindi un sacco di cose, non solo prendere uno stipendio o guadagnare autonomamente dei soldi. Lavorare è prima di tutto rendere o mantenere vivibile (abitabile, appunto!) lo spazio dove ci si trova, non dissiparne le risorse ma semmai farle crescere (la coltivazione e l’allevamento questo fanno: aumentano le risorse energetiche di quel territorio) e comunque evitare di distruggerle. Lavoro è l’opposto di guerra, in un certo senso. La guerra distrugge, il lavoro, come si dice, produce.

Solo che, di nuovo da qualche secolo, e soprattutto dopo l’esplosione del capitalismo industriale, con l’istituzione della fabbrica come luogo principale del lavoro genericamente inteso, sempre di più ci siamo dimenticati che i tipi di lavoro si possono raggruppare in due grandi famiglie, quella della Produzione e quella della Manutenzione. Un po’ accecati dal luccichio delle merci, e sotto la spinta delle esigenze del mercato, abbiamo creato una sorta di gerarchia morale, considerando la Produzione come il “vero” lavoro, e la Manutenzione come qualcosa di accessorio, una specie di lavoro di secondo livello.

Tradotto nel rapporto con il territorio, questa esasperazione del valore produttivo del lavoro ha implicato il dissesto idrogeologico che minaccia la grandissima parte dei Comuni italiani. A Ischia, dopo l’alluvione del 1910 vennero scavati tre canali di scolo, le briglie, e la metafora non potrebbe essere più adeguata: con le briglie non cerchi di produrre il territorio, piuttosto lo vuoi controllare, mantenere, evitare il disastro. Non solo si è costruito trasversalmente alle briglie, lungo il pendio, ma ci si è di fatto dimenticati di farci la manutenzione, di pulirle regolarmente, così che le piogge intense non hanno avuto più uno sfogo a valle, penetrando in profondità nel terreno a monte e causandone il terribile distacco.

Questo oblio collettivo dell’importanza della manutenzione è piuttosto generalizzato nelle società capitaliste, e ha colpito anche una città che mi sta molto a cuore. Venezia è una città che di fatto ha investito, per quanto riguarda il suo spazio urbano, forse più tempo nella manutenzione che non nella produzione. Non c’è una singola pietra in laguna che non sia stata importata da fuori, e il fondale fangoso può reggere il peso delle case solo perché i veneziani hanno piantato milioni di pali che si sono mineralizzati immersi nel fango e poggiati sul fondo roccioso, e sopra quei pali si sono disposte le piattaforme in pietra e legno che sono servite come fondamenta degli edifici. Una volta creata, ogni singola unità abitativa ha così richiesto una costante manutenzione, un lavoro minuzioso che riguardava ogni canale, ogni angolo, ogni riva. Il Magistrato alle acque della Serenissima controllava che i lavori di manutenzione fossero costanti e a regola d’arte, e i contadini delle isole della laguna ottenevano contratti “de socieda” (mezzadrie con gli ordini religiosi che possedevano la terra, ovviamente in nome di Dio) solo a patto che si impegnassero a mantenere i terreni sopra il livello del mare e gli argini ben protetti dalla forza distruttrice delle maree.

Eppure, la Venezia industrializzata nelle aree di Marghera e Fusina, nella porzione occidentale della laguna, dimenticherà completamente quel lavoro di manutenzione e io sono abbastanza vecchio per ricordare le barche in secca in diversi canali, che ancora nei primi anni Settanta (dopo l’acqua granda del 1966) non erano più dragati da decenni. Ubriaca di lavoro industriale, concepito esclusivamente come produzione di nuove merci, Venezia aveva scordato per molti anni il lavoro come manutenzione dell’esistente, rischiando di vedere perduta la sua stessa esistenza.

Ci vorrà la Legge speciale per Venezia del 1973 a ricordare a tutti (anche agli smemorati amministratori veneziani), che abitare è creare uno spazio sicuro, e lavorare è prendersi cura di quello spazio:

La Repubblica garantisce la salvaguardia dell’ambiente paesistico, storico, archeologico ed artistico della città di Venezia e della sua laguna, ne tutela l’equilibrio idraulico, ne preserva l’ambiente dall’inquinamento atmosferico e delle acque e ne assicura la vitalità socioeconomica nel quadro dello sviluppo generale e dell’assetto territoriale della Regione.

I molti disastri dovuti al maltempo in Italia sono anche la conseguenza di un cambiamento culturale: avendo confuso l’abitare con il possedere, e il lavorare con il produrre nuove merci, le nostre comunità locali si sono dimenticate che un bene, qualunque bene – tranne quelli usa e getta, che poi, chiamali beni – vive nel mondo e quindi deve essere mantenuto, curato, preso in cura. Se non impareremo presto, prestissimo, a rivalutare il lavoro di manutenzione, trascurato dalla fregola industriale della produzione, avremo un’altra drammatica prova che la cultura, il sistema di valori e simboli, non è un accessorio della vita umana, ma ne è il fondamento. Il mio timore è che quella prova possa essere, per la nostra specie, l’ultima.

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