I bambini marginalizzati e Tik Tok: quando il povero non è come lo voglio io
di Federico Recchia e Giada Giorgi
“Ma come, non c’hanno manco gli occhi per piangere e pensano all’Iphone, ai gioielli, ai followers su TikTok, alla tuta della Nike?” Questa è la frase frequentemente pronunciata dalla maggior parte dei membri di quel che resta della classe borghese impoverita, quando viene a conoscenze delle abitudini di consumo culturale di bambine e bambini che vivono in situazioni di marginalità estrema.
Il discorso soggiacente alla logica normalizzante del senso comune di questa frase, lascia intendere che il povero (l’abitante della periferia estrema, il rom che vive una situazione di segregazione, o anche semplicemente il cittadino non appartenente alle classi sociali più abbienti) abbia ben altro a cui pensare, piuttosto che ambire a tali sciocchezze.
Sono almeno tre le orrende posture che reggono questa posizione: la prima è materialista, la seconda è paternalista. La terza è la postura della paura, di chi sente la propria classe sociale impoverirsi sempre più.
In quello che di fatto è uno sguardo oggettivante, pensiamo di decidere cosa sia meglio per gli altri. A cosa dovrebbero aspirare, quali dovrebbero essere le loro priorità. Questo accade in via generale, ma accade più spesso quando l’Altro è considerato in qualche misura inferiore (inferiore nel senso di primitivo o quantomeno in uno stadio antecedente al nostro), il che scatena sempre una buona dose di paternalismo, come ci insegnano secoli di imperialismo.
Dal canto mio, osservo sempre con molta attenzione i balletti di TikTok di una donna rom, madre di tre figli e minacciata di sgombero. Donna che spesso, tra le altre cose, mi fa dei discorsi sulle cattive amicizie riferite ai suoi figli non molti distanti da quelli che faceva mia madre quando ero un adolescente.
Dovrebbe farmi specie che una donna perennemente sotto minaccia di sgombero, alla quale spesso mancano i servizi essenziali come acqua corrente ed elettricità, passi le sue giornate mettendo in scena i remake de “Il Brutto il buono il cattivo” insieme ai suoi figli e a suo marito?
Non lo nego: a volte succede. Il che mi dà da pensare.
Il punto è che queste persone non rispettano quello che noi ci aspettiamo debba essere un povero.
Se io ho tre plaid e cinque coperte, il povero deve avere una coperta striminzita, se io ho un lavoro, lui deve averne uno degradato o non averne, se io compro il pacco di pasta della Barilla, lui deve mettersi in lista per la spesa della Caritas.
Il povero, insomma, è una costruzione sociale esattamente come tutto il resto e se si permette di desiderare qualcosa che io ho ottenuto con fatica deve essere punito, redarguito, giudicato.
Si chiama strategia di definizione identitaria: se il povero non è abbastanza povero nel suo essere diametralmente opposto da me, mette in dubbio la mia capacità di pensarmi in quanto non povero. Sarà mica che se quel poverello là segue le pagine Instagram che seguo io, allora io non sono abbastanza benestante?
E invece guarda un po’, ce lo insegna Arjun Appadurai: la modernità si muove disancorando il territorio (e quindi eventualmente la propria condizione subalterna) all’immaginario a cui si viene sottoposti tramite tecnologie e media. Così può accadere che l’orizzonte culturale territoriale del bambino figlio di svuota cantine affacci su un mondo di tiktoker, tronisti, trapper, Fedez, triccheballacche.
Il modo in cui non capiamo tutto questo fa parte del modo in cui non capiamo il mondo globalizzato e la nostra condizione all’interno di esso. Il filosofo Odo Marquard definisce questa perdita di senso all’interno di un mondo sempre più veloce e interconnesso con il termine tachiestraneità.
Il fatto poi che la bambina o il bambino marginalizzato voglia ascoltare Pistole nelle Fendi o Sferaebbasta o che ne so io, e il fatto che creda che quella sia la dimensione a cui aspirare, non deve farci riflettere su “quanto sia stronzo quel bambino che non ha neanche i quaderni e vuole fare il tiktoker”, ma su quale sia il significato collettivo che diamo alla parola celebrità.
Vagando nelle piazze di Tor Bella Monaca, è possibile assistere all’intervento di educatori e educatrici ideologizzati e senza nessun contatto con la realtà: troppo concentrati sul mondo come dovrebbe essere piuttosto che sul mondo com’è. Per cui, il quotidiano nel mondo degli adulti educatori bacchettoni è spesso un rincorrersi di “mio dio questo è un disturbo dell’attenzione”, “non alza gli occhi dal telefono”, “distrugge tutto”.
La scommessa è che quell’esercito di bambine e bambini ADHD costantemente marginalizzati capiscano di poter accedere a qualcos’altro, essere padroni della propria vita, anche e soprattutto appropriandosi delle pratiche superflue di altri bambini e bambine: credere che un giorno potranno non usare una parete ammuffita come sfondo per il balletto di TikTok.
L’omologazione – o meglio la tensione verso una classe sociale dotata di maggior benessere –, passa necessariamente attraverso l’appropriazione di ritualità di consumo culturale. E tutto il resto, beh, tutto il resto è soffiare sulla fiammella della speranza di una vita di autodeterminazione dall’alto della propria traballante condizione di privilegio.
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