La vita è l’intermezzo tra una stanza di senso e l’altra. È ciò che accade tra due porte chiuse e dirimpettaie. Vortice che dissipa speranza. Azzardo da cui è impossibile sottrarsi. Tana in cui chiudere gli occhi e aspettare che passi. Morso velenoso. Luci di terrazza. Logorio e travaglio. Attesa e crosta di pizza, antenne sui tetti. Mani sporche d’aria. Un vestito dimenticato su una terrazza ad asciugare. È attesa e aspettativa filtrate dalle dimenticanze quotidiane.  

Il carcere è la grammatura dell’essere vivi: peso e misura di un giorno in più, che è sempre un giorno in meno. Il quinto incontro di Leggere de Waal a Rebibbia è stato un’occasione per risvegliare tutto questo: abbiamo infatti parlato di libertà, diritto alla speranza e all’affettività, accettazione, del rapporto con il tempo e con la progettualità.  

Un breve testo di L.F., consegnatoci negli incontri precedenti, ha funzionato da filo conduttore per unire i punti discussi insieme. In un passaggio scrive: «dormo e quando mi giro non cerco nemmeno più il calore del corpo della mia compagna, perché so bene che al mio fianco c’è lui, il muro. Gelido d’inverno, bollente d’estate e mai sorridente. La vita fuori continua e le visite iniziano a diminuire, fino a sparire. Bisogna saper lasciar andare, alla fine anche quello è un modo di amare».  

A partire dalla lettura di queste righe abbiamo introdotto il confronto sull’affettività, ritornando anche su un’affermazione di qualche tempo prima di G.C., relativa al mutamento del noi e del loro: Sosteneva che in carcere il noi subisce inevitabilmente dei cambiamenti, perché iniziano a farne parte la cella e i cosiddetti concellanti, le persone con cui si condividono pochi metri quadrati, di giorno e di notte.  

È L.F. che aggiunge: «a questo punto la famiglia diventa il voi. A volte non chiedo nemmeno più “cosa hai fatto” per paura di disturbare». È il risultato dell’allontanamento, il rimasuglio di un affetto che resiste spossato dal silenzio, della vita accumulata tra due stanze che non sanno più comunicare. Quando si parla di affettività, in carcere l’aria diventa più grave, è pregna di senso di colpa e non detti talmente grandi che lo scarto tra i sentimenti e le parole diventa incolmabile. Qualsiasi altro argomento, seppur difficile da toccare, permette dei possibili varchi di apertura e di connessione. Nel parlare di affettività invece si ha la sensazione di sprofondare in un vuoto a perdere, dove mentre una parete urla mancanza, l’altra le fa eco con l’assenza.  

Attraverso qualunque venatura dolce-amara volessimo far pulsare la nostra vita, di qualsiasi affaccio volessimo colorarci gli occhi, la privazione della libertà appiattisce tutto in quel fischio sottile e costante in cui stridono attesa e impotenza. «Io vivo per i colloqui, la vita qui è aspettare i colloqui», per dirlo con le parole di G.C. 

Per confrontarci su cosa sia vivere è stato necessario partire però dalle considerazioni sulla libertà e la scelta, inserendoci in una riflessione più ampia sulla percezione del tempo.  Alcuni erano concordi nell’asserire che il loro presente non è tempo, che le dimensioni a cui possono attribuire un senso rimangono quella del passato, perché è stato vissuto, e quella del futuro perché sarà il momento in cui riprenderanno a vivere. Di fronte all’analisi agostiniana e quindi al presente come unico tempo che siamo portati a vivere, però, siamo riusciti ad estendere la riflessione al tema dell’accettazione, condizione essenziale e primaria per i processi di comprensione e significazione. Indispensabili, a loro volta, per non ridurre il presente ad un contenitore sterile di senso e di rilevanza. A chiudere l’incontro è stato F.F., che, con gli occhi lucidi, ci ha spiegato come abbia avuto «bisogno di vivere questo presente, cercando di essere utile alla famiglia e a tutte le persone che come me stanno vivendo questa condizione di dolore e privazione. Metto a disposizione quello che so, per cercare di migliorare questo luogo e lasciare qualcosa».  



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