“Leggere de Waal a Rebibbia”. Esiste un senso innato della giustizia? Come conciliarlo con l’esistenza del crimine?
Giustizia e compassione sono sentimenti innati, in qualche modo attitudini naturali e strutturali dell’essere umano? E, se è così, perché si delinque? Chi lo fa da cosa è mosso? Come conciliare, insomma, la naturalità del senso di giustizia e l’esistenza del crimine?
“Leggere de Waal a Rebibbia”, è un progetto laboratoriale pensato e proposto da Pietro Vereni che prevede, attraverso la lettura, il commento e la riflessione sul saggio Il bonobo e l’ateo, un dialogo con e tra le persone detenute. Due mesi durante i quali circa trenta detenuti, distribuiti nei vari reparti della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, si confronteranno sul senso della giustizia a partire dalla sua eventuale accezione naturale e poi sulla sua costituzione come dispositivo culturale, condividendo nel merito le loro testimonianze e prospettive.
Gli incontri settimanali inizieranno ad aprile e serviranno a introdurre i capitoli, che verranno poi letti individualmente dai detenuti. Ogni settimana quindi ci sarà un tavolo di lavoro in cui confrontare e proporre analisi, confutazioni o riletture personali: commenti, discussioni e riflessioni che saranno raccolte per confluire, al termine del seminario, in una pubblicazione.
Leggere de Waal a Rebibbia è pensato come un laboratorio pratico, in cui il dibattito sulla giustizia non si ripiega su sé stesso, ma anzi prende forma in una proposta di giustizia più compiuta e consapevole. Le premesse del confronto sul senso innato della giustizia e della compassione sostenuto da de Waal saranno interrogativi attorno ai quali imbastire la trama del senso di giustizia tra le persone detenute.
Si tratta di chiedere e di riflettere insieme a chi il volto ferreo del sistema penale lo subisce, qual è il senso della giustizia, se ce n’è uno che prevale sugli altri e perché. Un senso di giustizia masticato e non esclusivamente pensato. Un significato costruito attorno all’uomo che è, non intorno a quello che avrebbe dovuto essere o che potenzialmente sarà.
Un senso di giustizia che necessariamente deve fare i conti anche con la punizione esercitata dal sistema penitenziario, il quale paradossalmente tradisce il proprio intrinseco senso di giustizia: pensato come come un’istituzione che dovrebbe essere in grado di restituire, mentre e dopo aver tolto, e che invece ha una tradizione consolidata nella sottrazione dell’esistenza.
Ingiustizia e disprezzo costituiscono – seppur forse in maniera approssimativa – il negativo della giustizia e della compassione. Una dicotomia insanabile per definizione, perché vive proprio nell’interrogativo iniziale: come si può conciliare la naturalità del senso di giustizia e l’esistenza del crimine? Una domanda che non ha ragione di esistere al di fuori della partecipazione attiva delle persone recluse, portatrici in qualche modo di ingiustizia: prima attiva nel reato, passiva poi nella sopportazione di una condanna che, nella gran parte dei casi, si riduce a nient’altro che pena: sottrazione di tempo, restituzione indotta del nulla.