Lo hau di nonna in una banconota. Tra thick e thin description
di Riccardo Romito
L’idea che il denaro sia una cosa associabile alla spiritualità e capace di dare un senso trascendente al nostro agire sembrerebbe bislacca. In pochi, per esempio, sono pronti a credere che una banconota possa racchiudere l’Hau di mia nonna, una delle due parti contrattuali della nota pratica rituale della paghetta.
Sin dagli anni delle ultime emissioni del vecchio conio, nonna Vittoria soleva ingrossare le tasche di un quattrenne o cinquenne Riccardo con una paghetta di cinquemila lire: materialmente un pezzo di carta, divenuto il pezzo di carta da venti euro nel corso dei due decenni successivi.
Se la thin description non può che far riferimento a un pezzo di carta, l’ardire della mia impresa è nell’ambizione di una thick description lontana dal valore d’uso condiviso dalla nostra società: una descrizione densa, che tiene conto del contesto e del significato oltre la descrizione apparente. Provo a immaginarmi un alieno che non constata alcun significato, che non associa nessun tipo di valore a quel pezzo di carta: il suo punto di vista thin, tuttavia, non riguarda soltanto il valore economico di una banconota; l’alieno, infatti, non comprenderebbe perché mia nonna me ne donava uno ogni fine settimana se prima non capisse che il suo valore era inscindibilmente legato all’uso che io ne avrei fatto.
Nel corso della mia infanzia, adolescenza, prima età adulta, quei pezzi di carta e filigrana sono stati da me utilizzati come mezzo di scambio finalizzati ai più disparati prodotti o svaghi. Nonna Vittoria soleva donarmene uno ogni domenica – il giorno in cui non mancavo mai di marcare visita, conscio del succulento bottino. Quando facevo per andarmene, verso sera, lei mi fermava: “Aspetta, devo darti l’obolo di San Pietro!”; tale espressione negli ultimi otto anni di invalidità di mia nonna, che non poteva più camminare, si era tramutata in: “Lo sei andato a prendere l’obolo?!”
L’alieno dovrebbe a questo punto andare a vedere come spendevo quei soldi, a cosa mi servivano, perché mia nonna mi dava la paghetta e perché io mi affrettavo ad accattarla. Quesiti che Riccardo stesso, giovanotto universitario del suburbio capitolino, in fondo un po’ viziato, ben si guardava dal porsi. Prendeva e ne fruiva. Con questo non voglio dire di aver mancato di gratitudine. Eppure, in un preciso tempo, quel significante-banconota inizia a ‘significare’ qualcosa di nuovo, che rivaluta tutto il giudizio espresso sul precedente utilizzo della paghetta.
Verso i suoi novantuno anni, le condizioni di salute di Nonna Vittoria peggiorano sensibilmente; vederla e frequentarla mi lasciava tanto pianto quotidiano: quasi non parlava più. Tuttavia, Vittoria non aveva perso due abitudini: chiedermi come procedessero gli studi e, ovviamente, darmi la paghetta. Qualcosa in me ha cominciato a cambiare: il ‘ventone’ donatomi non lo finalizzavo più all’autoconsumo, né alla tesaurizzazione. Piuttosto, gli riservavo un posto distinto nel mio portafogli e lo spendevo solo dopo aver ricevuto la banconota della settimana successiva.
Qui l’alieno-osservatore esterno è perplesso. Ancora una volta è costretto a domandarsi il perché di questo cambio di condotta da parte mia all’in-variare delle condizioni materiali dell’oggetto (banconota da venti euro) e del suo valore nominale (nessuna oscillazione macroscopica del valore dell’euro).
L’ultimo obolo che ho ricevuto da mia nonna è del 19 febbraio. Tre giorni dopo, Vittoria se ne va. Incastro quella banconota sul retro di una cornice che porta una foto di me e lei, risalente alla mia prima infanzia.
Stavolta l’alieno che osserva e descrive fisicamente il fatto si mette le mani nei capelli! Dovrà sbatterci la testa per capire che diavolo ci fa una banconota da venti euro dietro una cornice. Non si tratta, infatti, di tesaurizzazione (quella banconota rimane lì, immota, anche quando non ho un euro in tasca) né d’altra finalità utilitaristica: quella banconota non serve a niente.
Per capire le ragioni del mutamento del mio comportamento è necessario conoscere me, mia nonna e il rapporto simbolico che ci lega; prospettiva relazionale di cui il segno-banconota che io ho scelto fornisce un esempio di rappresentazione.
In questo caso, al mutare del nostro rapporto, l’oggetto cui in un primo momento non attribuivo alcun significato, esplode nella pregnanza dei suoi valori parentali, affettivi, etici, relazionali, religiosi.
La malattia di nonna Vittoria mi ha portato profonda tristezza e stati depressivi, ma anche attiva riflessione sulla funzione che quella donna ha svolto per me in tutta la mia vita e su quanto ho rappresentato – io per lei – nella parte finale della sua. La paghetta in cui per tanto tempo io non ho saputo veder altro che il suo valore d’uso, per mia nonna ha sempre avuto un significato altro, sotteso alla pratica del dono disinteressato. Per Vittoria Azzetti, nata sotto il segno del Sagittario nel 1930 nella provincia di Trento e emigrata a Roma, diciottenne, per formarsi e lavorare una vita come infermiera, l’indipendenza propria, il benessere e la felicità della famiglia sono sempre state al primo posto. Fin dalla mia nascita, il suo unico nipote ha rappresentato per lei tanto la realizzazione di un obiettivo, quanto una speranza per il futuro, esattamente come tanti anni prima lo rappresentarono i suoi due figli. Il suo aiuto economico – cui non ha mai fatto mancare quello affettivo – nei miei confronti non si è limitato a infanzia e adolescenza, ma è proseguito fino alla mia ormai età adulta, in cui tuttora fatico a trovare un posto nel mondo. Ma nonna c’è sempre stata, con il suo ventone, a dirmi, simbolicamente: “Non ti preoccupare, ci sono io che ho fatto tanti sacrifici nella vita, tu puoi stare tranquillo e studiare in libertà”.
Al dono (indiretto) della vita nonna non mi ha mai fatto mancare quello della libertà, senza il parassitario vizio del tornaconto personale o la costituzione di un rapporto di dipendenza. Con quei soldi potevo farci ciò che mi pareva: a Vittoria interessava essere un esempio, non obbligarmi a seguirlo.
Quando ho realizzato che se ne stava andando, ho compreso il significato che aveva per me quel simbolo: in quella banconota che ancora conservo risiede lo Hau di nonna Vittoria, il suo spirito, la nostra relazione, quello che la sua esperienza ha lasciato sulla terra e mi nutre quotidianamente. Quella banconota mi ricorda la sua storia, e che io e mio padre discendiamo per diverse vie dal suo utero.
Nonna Vittoria avrebbe continuato a mollare il ventone anche a centovent’anni a un Riccardo ormai cinquattraquattreenne. L’idea di possedere l’ultimo segno simbolico, carico di significato, scolpisce l’esperienza della sua morte nella mia vita e, paradossalmente, mi dà un senso, che tra le lacrime della perdita mi era inaccessibile. Morendo, nonna Vittoria mi ha manifestato il suo hau, che con me è condiviso; mentre lei se ne andava, io finalmente accettavo il suo amore disinteressato, lo comprendevo, e divenivo capace di amare; uscivo dal solipsismo, mi affacciavo per la prima volta all’Altro e sognavo una famiglia. La mia vita trovava una prospettiva.
Dietro l’ultima banconota donatami da mia nonna, a prima vista una paghetta finalizzata ai più urgenti bisogni primari e secondari di un Peter Pan che nemmeno apprezza (e sovente, insolente, si lamenta: quella pensione da democristiana chiude tutte le prospettive a noi giovani!), dentro quell’ultima banconota, passibile di thin description, è inscritto lo Hau di mia nonna, il suo spirito, portatore di significati che trascendono l’immediato (thick description).