La mia vita da sensomane #4: gli ibernisti di Capodanno
Tutto questo leggere, studiare, informarmi, cercare intuizioni e teorie in ogni anfratto testuale, negli articoli, nei libri dei sapienti di ieri e di oggi, serve a qualcosa? Mi dà, almeno ogni tanto, una spiegazione plausibile di ciò che vedo intorno a me? Vale la pena che io impieghi tutto questo tempo a sottolineare frasi e scrutare schermi? Ci sono, da qualche parte, oracoli alfabetici che mi ripagano con un responso utile, in cambio delle giornate che gli sacrifico, invece di spenderle in attività più redditizie?
A Capodanno sono andato a vedere gli ibernisti fare il bagno al Lido. Ogni primo gennaio, a mezzogiorno, una cinquantina di veneziani si pucciano nell’Adriatico gelido. Sotto il cielo grigetto, la temperatura era mite – sinistramente mite, essendo un sintomo del cambiamento climatico.
Racconterò questa mattinata perché mette in luce un altro aspetto della mia sensomania: quel sentimento di felicità che provo quando una teoria è in grado di spiegarmi quel che accade nel mondo.
La spiaggia del Lido era senza capanni né altra attrezzeria balneare. Ogni anno, in autunno, i bulldozer spianano tutto ammassando un argine di sabbia parallelo alla riva, a qualche decina di metri dall’acqua, per contenere le mareggiate ed evitare che si portino via la spiaggia. In quell’argine, alto circa tre metri, c’è un varco: da lì stamattina siamo passati noi, a centinaia, venuti a vedere il bagno degli ibernisti.
Letteralmente, “ibernisti” significa “adepti dell’inverno”, “invernomani”, “fondamentalisti della stagione invernale”. Il termine non si trova nei vocabolari della lingua italiana che ho in casa (Sabatini Coletti, 2004; Zingarelli, 2015); anche il dizionario Treccani in rete tace. Non è chiaro chi l’abbia coniato; forse il giornalista e critico d’arte Paolo Rizzi, uno dei primi iscritti all’associazione fondata nel 1977. Gli ibernisti veneziani rivendicano con orgoglio l’esclusiva di questa parola con cui si sono autodefiniti.
E in effetti la loro è una passione sincera, praticata non solo a Capodanno ma durante tutto l’autunno e l’inverno, senza esibizioni. Oltre a fare una nuotata nel mare gelido da soli quando ne hanno voglia, si ritrovano ogni domenica, da ottobre a marzo, per un bagno collettivo, qualsiasi tempo faccia. È suggestivo come lo descrivono nel loro sito: «fare il bagno durante una splendida, ma fredda, giornata di sole, ma anche quando soffia crudele il vento di bora che sferza i corpi bagnati, o quando la nebbia fitta avvolge le dighe e rende l’ambiente circostante un tutt’uno in cui svanisce la distinzione tra mare e cielo, o sotto una pioggia torrenziale che sembra divertirsi a colpire le membra con tanta violenza da fare quasi male, o quando la neve ammanta le dune di sabbia con il suo candore trasformando completamente il paesaggio marino rendendolo assolutamente diverso dal consueto e quasi irriconoscibile anche per un veneziano…»
Bagnarsi in mare, a maggior ragione in inverno, è un modo di immergersi nel paesaggio, di farne parte senza limitarsi a contemplarlo. Quando guardiamo il mondo incantati, l’entusiasmo si infervora sempre di più, qualcosa trabocca in noi, sentiamo uno slancio, non ci basta vedere, desideriamo gettarci dentro gli scenari che ci affascinano. Ma di rado abbiamo il coraggio di farlo. Loro, sì.
Sono arrivati puntuali, a mezzogiorno. Si sono raggruppati e hanno sfilato in costume da bagno, in una specie di processione. Ai membri dell’associazione, come succede ogni anno, si sono uniti all’ultimo momento un po’ di turisti, per emulazione, e per sfida con sé stessi. Accanto a me c’era un signore francese con i capelli grigi; avrà sentito parlare di questa cerimonia, si è portato in una borsa gli asciugamani dall’albergo; si è svestito affidando gli abiti a sua moglie, è rimasto in mutandoni di cotonina, con la sua faccia gioviale sopra il torace corpulento. I giornalisti presenti hanno contato un’ottantina di bagnanti, «di cui 24 stranieri».
Nelle frasi precedenti sono affiorate le parole «processione» e «cerimonia»; non sono termini innocenti. Vedendo gli ibernisti sfilare tutti insieme, ho avuto il primo sospetto. Che stia assistendo a un rito?, mi sono detto. Lo so, la parola rito è sdata, ormai la si concede a qualsiasi manifestazione collettiva. Ma in questo caso credo che sia la più adatta.
Il drappello è entrato in acqua, fino alle ginocchia. Hanno dispiegato un piccolo striscione con gli auguri di buon 2023. Lo hanno mostrato alle persone rimaste vestite sulla spiaggia, che li fotografavano e filmavano, per spedire le immagini ad amici e gruppi whatsapp (l’ho fatto anch’io).
Un grido di giubilo collettivo, e il rito, almeno nella sua parte marina, è finito lì. Chi ha voluto ha continuato a inoltrarsi in quelle grigie acque piatte. Qualcuno si è tuffato immergendosi completamente; in pochi hanno accennato qualche bracciata. Nonostante l’aria non fosse troppo fredda, l’acqua doveva essere gelida (la media di gennaio è di 6/7 gradi; i resoconti giornalistici della giornata parlano di 8 gradi); ad ogni modo, la maggioranza è ritornata sulla spiaggia dopo pochi minuti.
È stato l’effetto sui volti delle persone attorno a me, e di tutte quelle rimaste vestite sulla riva, a convincermi che si trattava di un rito. Erano tutti sorridenti. Che cos’è che gli procurava quella contentezza?
La maggioranza dei presenti, il novanta per cento, se ne stava sulla spiaggia, protetta dagli abiti invernali. Solo un piccolo gruppo si era spogliato ed era entrato in mare. L’immersione è stata più cerimoniale che effettiva. Gli ibernisti si sono esposti all’aria, sguarniti di protezione, per una ventina di minuti, e ancora meno tempo lo hanno passato in acqua. Quella di oggi era più che altro una dimostrazione, una serissima messa in scena: gli ibernisti ci mostravano la separazione originaria della nostra specie rispetto al clima di questo pianeta, il nostro non esserci abbandonati ai dettami delle stagioni. Attraverso la loro eccezione, mettevano in evidenza la regola. Il rito attestava la nostra fondamentale scelta di specie, la nostra autarchia evolutiva.
Le specie animali che sono riuscite a sopravvivere attraverso le ere sono quelle che si sono adattate all’ambiente accettando di obbedire alle intemperie. Hanno incorporato l’ambiente climatico dentro di sé, traducendolo in una modificazione fisica. L’adattamento al mondo l’hanno patito nel proprio corpo. In particolare, ai terricoli, le esigenze climatiche hanno provocato ispessimenti della pelle, crescita di peli, penne, manti, placche, squame, gusci. Noi umani abbiamo avuto orrore di queste soluzioni. Qualcosa, nel nostro animo, ha fatto resistenza: non abbiamo sviluppato una protezione dermica più efficace. O meglio, se ne avevamo una, abbiamo fatto di tutto per disfarcene, imboccando una direzione trasformativa antiambientale. Non ci siamo abbandonati senza riserve agli inverni e alle estati, non abbiamo accettato che fossero loro a imporci le regole della nostra interazione corporea con la Terra. Più che ibernisti, siamo ibernofobi.
Queste riflessioni derivano dalla recente lettura di un saggio di Peter Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati (Bompiani, 2004). In poche pagine, il filosofo di Karlsruhe mette in discussione Darwin, mostrando che quello umano è stato un adattamento fatto a modo nostro, una reazione ostile alla selezione naturale. Sloterdijk, rifacendosi a un concetto della paleontologia, parla di processi di «insulazione», cioè di separazione dall’ambiente; l’umanità si sarebbe isolata in una sorta di serra extranaturale. La selezione c’è stata, e continua a esserci, ma, dice Sloterdijk, «non conduce tanto all’adattamento a un ambiente circostante che esercita una pressione, bensì premia le caratteristiche che facilitano al sapiens in fieri un’ulteriore presa di distanza dall’ambiente, e dunque un ulteriore disadattamento da esso».
Sui volti delle persone radunate a guardare la cerimonia marina di Capodanno affiorava un’allegria ironica, che era il cuore del rito stesso. Il bagno degli ibernisti era il contrario di ciò che sembrava: ci si immerge senza protezioni nelle acque dell’inverno, nelle sue arie, nel suo clima, per mostrare con ancora maggiore evidenza quanto la nostra specie ne sia aliena e felicemente al riparo. «Siamo venuti qui a celebrare – dicevano i sorrisi allegramente ironici della folla – la nostra scelta di differenziarci dalla natura, l’avere messo un diaframma fra noi e il freddo, fra noi e l’arroganza ambientale che pretendeva di plasmare i nostri corpi, le nostre epidermidi, i nostri lineamenti secondo le sue leggi. Noi umani non abbiamo ceduto. Non ci siamo adattati. La nostra sopravvivenza del più adatto è stata antidarwiniana. Ci siamo evoluti, sì, ma a nostro piacimento, secondo le nostre regole. Il progresso di specie, la civiltà, le invenzioni tecnologiche, sono state la nostra risposta alle pretese dell’ambiente, la nostra resistenza all’evoluzione naturale».
La seconda parte del rito è stata eucaristica. L’associazione degli ibernisti ha offerto il piatto tradizionale dell’ultimo dell’anno: lenticchie e cotechino. Mi sono messo in fila, dietro decine di persone; ho aspettato il mio turno; ho ricevuto un piatto di carta pressata, con una abbondante mestolata di lenticchie e due fette di cotechino, una forchettina di plastica, un tovagliolo di carta, tre dita di vino rosso in un bicchiere di plastica trasparente. Duecento chili di cotechino, centocinquanta di lenticchie: tutto veniva elargito gratuitamente; chiaro segno, anche questo, di ritualità. Ci siamo trovati un posto a sedere, abbiamo consumato collettivamente quella comunione pagana, per concludere la nostra liturgia di specie autoevoluta.
Ho origliato i ventenni stranieri seduti vicino a me, tre ragazzi e tre ragazze, che avevano fatto il bagno anche loro. Erano tedeschi e americani. Ispezionavano con la punta della forchettina le lenticchie, spostavano diffidenti le fette di cotechino sul piatto di cartone. «Sentiamo come sono ’ste salsicce – dicevano in inglese – Mmmh… Non esattamente vegetariane. Molto… carnose!» Hanno spazzato tutto in quattro bocconi.
La comunanza del cibo ci univa, rinsaldando la comunità rituale. Abbiamo mangiato maiale, l’animale più bestiale fra le bestie addomesticate, quello che si sottomette senza riserve alla dittatura della natura e ai suoi bisogni, e che noi abbiamo sottomesso alla nostra specie: il più vorace, il più escretorio, il più impudico. Il più pronto a voltolarsi estaticamente nel fango del mondo. Abbiamo sacrificato un’ecatombe suina agli dèi del nostro evoluzionismo autarchico. E abbiamo mangiato lenticchie: certo, era la classica superstizione per favorire i guadagni del nuovo anno; ma in questo caso – in questo rito – diventava anche il simbolo della nostra stessa capacità di simbolizzazione. Le lenticchie, infatti, simboleggiano a loro volta un altro simbolo, il più astratto e il più pratico che la specie umana abbia saputo concepire e utilizzare nella vita di ogni giorno: le monete, il denaro. Maiale e lenticchie, bestia e simbolo, evoluzione e civiltà, selva e linguaggio.
Alla fine sono passato vicino al tavolo dove si distribuiva il cibo, per gettare i rifiuti nei cestini. C’era un momento di pausa delle cucine; il volontario che serviva i piatti ha chiesto di avere pazienza a chi ancora aspettava di mangiare. Uno di loro ha detto, in dialetto: «No, perché… Le tradizioni… Bisogna!» Quelle frasi smozzicate, a modo loro erano molto esplicite: l’uomo si stava giustificando, dava una spiegazione del suo stare in attesa del piatto da inghiottire a sbafo. «Non lo faccio per golosità né per fame – significavano le sue parole – ma perché le tradizioni, in quanto tali, vanno perpetuate, e anch’io sto contribuendo alla loro manutenzione».
Se il piatto di lenticchie e cotechino è una tradizione secolare, di certo non lo è il bagno in mare di Capodanno. Gli ibernisti del Lido di Venezia lo fanno tutti insieme dal 1979. Quarantaquattro anni non sono pochi; insufficienti, forse, per considerarli una tradizione, ma abbastanza per riconoscere un rito contemporaneo che si è andato via via strutturando e confermando come tale. È in quest’epoca che si è raggiunta la piena consapevolezza della nostra scelta autoevoluzionistica: ed è coerente, quindi, che in questi decenni si celebri il confine fra i due tipi di evoluzione, officiando una liturgia che si installa sulla linea di divaricazione fra gelo e pelle, fra immersione e separatezza, fra ambiente e abbigliamento, fra corpo animale e corpo umano, fra pelo ed epidermide, fra abbandono e resistenza, fra fiducia e terrore, fra obbedienza e orgoglio, fra adattamento e tecnologia.
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