Nella filosofia agostiniana, non esiste tempo interiore dell’uomo se non quello presente: il passato è visto come la memoria di un presente che non c’è più, il futuro è la tensione verso un presente che ancora non c’è.
In carcere come in Agostino, dal qui e ora non si esce: il presente è una struttura escatologica e ontologica, fissa e inamovibile, causa di miopia, perché impedisce allo sguardo di vedere al di là delle sbarre. 

Non molto tempo fa, parlavo della percezione del sé e del tempo con una persona condannata all’ergastolo: mi raccontava la sopravvivenza nolente, a cui lo costringe un presente che non ha bisogno di proiettarsi al futuro. Un eterno ritorno così rapido da spezzare la stessa circolarità del tempo e diventare una linea retta di punti indistinti: un ritorno senza la pretesa né l’esigenza di tornare.  

Carlo* è un uomo dalle battute concise, dagli scambi rapidi, dalle parole crude. Non so se il parlare serrato abbia sempre caratterizzato la sua indole, o se sia il risultato dell’azione esercitata dal carcere; fatto sta che con una manciata di parole strappa il superfluo, arrivando all’essenza: «se non fossi cosciente di avere un passato non potrei nemmeno dire di essere vivo». Alla mia domanda, allora, su cosa rappresentino per lui passato, presente e futuro, mi risponde: «il passato è la vita, il presente non esiste. Il futuro spero di poterlo conoscere».  

Perché il tempo è diventato strumento punitivo? 

Se da un lato il tempo acquisisce spontaneamente una valenza esistenziale, nella misura in cui la persona detenuta è chiamata a fare i conti con sé stessa e con gli stati d’animo e le prese di coscienza che questo comporta, dall’altro assume anche il ruolo formale di strumento punitivo: priva, mentre continua a concedersi. «Essendo il tempo l’unico bene che si possiede, lo si compra per il lavoro o lo si preleva per un’infrazione. Il salario serve a retribuire il tempo di lavoro, il tempo di libertà servirà a pagare l’infrazione», scriveva Michel Foucault ne La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973) 

Lo sfruttamento del tempo come criterio di scambio e risarcimento ha un’impronta capitalista: il tempo è merce scambiabile e quantificabile, e così come il lavoro viene diviso in fasi e le fasi in ore, anche la detenzione gioca sul significato del tempo libero, togliendo la possibilità di fare, controllando le ore di ozio e quelle di attività. È così che la società si appropria del tempo che resta da vivere ad un individuo per punirlo. 

Dal tempo non si scappa: è un labirinto senza via d’uscita. Esistiamo con lui o non esistiamo affatto. La connotazione principale del rimanere nel tempo, soli con se stessi, è la ricerca del senso. Del suo e del nostro. E, se è vero che siamo condannati al presente come dimensione esistenziale, l’esigenza di senso non può ridursi alla prospettiva del qui e ora, a cui invece obbliga la detenzione.  

Il carcere è punitivo nell’essenza poiché intrappola l’uomo nel tempo, lo lega mani e piedi al suo scorrere, all’irruenza dell’impossibilità di mettersi in pausa. Alla paura dell’essere soli e fragili, persi dentro una bolla di sapone che non scoppia. È una trappola mortale, che uccide vincolando alla sopravvivenza, alla perdita del senso dentro l’obbligo di trovarlo, un senso.  

Chi non ha la prospettiva di un presente che non è ancora futuro, e che non potrà mai esserlo, non è vivo. Chi non ha coscienza del tempo, non ha attinenza allo spazio. È solo. Dentro una bolla di sapone che non scoppia.   

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