Come dovrebbe iniziare un articolo che racconta il Natale trascorso dietro le mura di un carcere? Scrivo e cancello da non so più quanto tempo, tanto vale che lo ammetta subito: ho paura della banalità. È il rischio che si corre quando in qualche modo si tenta vanamente di appropriarsi dell’intimità altrui. Le parole perdono di senso, la loro attinenza al reale.

E allora mi chiedo come posso, da semplice osservatrice della detenzione altrui, raccontare il freddo ancestrale e nostalgico che in questo periodo impreziosisce il grazioso filo spinato e le incantevoli reti alle finestre. È una verità che si infila nel naso e rimane incastrata nello stomaco e non so ancora come farla scivolare fino alle dita per liberarmene in una manciata di parole. È l’incontrovertibile che cade nel baratro dell’indicibile.

Non le conto più le volte in cui sono rimasta ferma a guardare l’andatura silenziosa e alienata di chi da fuori arriva e riparte per un colloquio. Non le conto più le volte in cui, lungo i corridoi, ho incrociato il passo accelerato di chi scende dal proprio reparto con il cibo in mano, da mangiare insieme a chi da fuori è venuto a fargli visita.

Due strade, due attitudini, due aspettative diverse, eppure intrecciate fino a occupare lo stesso spazio: quello di una panchina all’area verde o di una sedia dentro una sala colloqui. Ma dove vanno queste persone? Me lo chiedo sempre. Dove vanno a morire le loro speranze? Da dove parte e su quale scoglio si è incagliata la loro storia? Voglio dire: dove vanno? Come resistono? È stonato il ripiegarsi della gente intorno al carcere. E messa di fronte all’insensatezza di un vagabondare per restare vivi, sorrido confortandomi con un pensiero: ogni colloquio in fondo forse è come se fosse un po’ Natale. Qualche caro affetto da avere vicino, anche senza un granché da dirsi o qualcuno da guardare, anche se in fondo avremmo potuto farne a meno.

E poi ci sono i pacchi. Il pacco – per essere fedele al gergo carcerario – è quello spedito da casa o portato a mano dai famigliari. Sì, perché le visite ai colloqui solitamente vengono accompagnate da buste o borse che contengono per lo più vestiti e cibo. I pacchi della galera contengono e trasportano una storia. La storia di una famiglia, di una tradizione, la storia della persona a cui sono indirizzati. Un semplice pacco diventa lo strumento che compensa una mancanza, porta dentro di sé il peso dell’assenza, la fatica dello spostamento, i sacrifici dell’esserci, la paura del non essere abbastanza, il coraggio di essere qualcosa o di provare a restare in qualche modo.

Pacchi regalo? Ricordo? Bomba? Speranza? Pacchi fregatura? Sì, chiave e catenaccio. La consapevolezza di avere qualcuno fuori che pensa a te, ma non è lì con te. Qualsiasi cosa possa o voglia significare il Natale, i pacchi della galera simbolicamente la recuperano. Sempre, non soltanto a ridosso delle “feste”.

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