Il fallimento delle scienze sociali nel dare strumenti di comprensione del mondo. Le dichiarazioni di Piantedosi
L’affondamento di un barcone carico di migranti al largo delle coste di Steccato di Cutro in provincia di Crotone, all’alba di domenica 26 febbraio, e il commento che ne ha dato il giorno dopo il ministro degli Interni Matteo Piantedosi costituiscono, credo, la prova evidente del fallimento delle scienze sociali in generale e dell’antropologia culturale in particolare.
L’antropologia dovrebbe fare sostanzialmente due cose: la prima è provare a capire la diversità e a comunicarla. La seconda cosa è aumentare la consapevolezza di sé.
Penso che in questo questo dramma si è fallito doppiamente, non raggiungendo nessuno dei due scopi a cui potrebbe essere utile l’antropologia culturale.
Ma perché mai non dovrei essere preso per un pazzo farneticatore quando davanti a una tragedia collettiva parlo di antropologia culturale?
Essere a contatto con la diversità vuol dire avere a che fare con uomini diversi da noi, persone che letteralmente pensano in maniera diversa dalla nostra. Lo sforzo dell’antropologia si dice, è quello di ricostruire il loro punto di vista emic, che vuol dire proprio il punto di vista del nativo.
Quando il ministro Piantedosi dice che la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli, o cose come “quando ci sono queste condizioni, non devono partire”, vuol dire che lui stesso non ha nessun interesse nel provare a vedere le cose effettivamente dal punto di vista dell’altro, non c’è nessuna volontà di capire quali sono le condizioni di vita per cui io ho deciso di salire sul barcone con i miei figli sapendo che la loro vita, non solo la mia, è in pericolo. Piantedosi dice serenamente la disperazione non può mai giustificare: non ci sono le condizioni per partire, punto e basta. Questo è il dato di fatto. Questa rinuncia totale a confrontarsi con la diversità è veramente il fallimento: vuol dire che non siamo riusciti, come antropologi e quindi scienziati sociali, a far capire la rilevanza di questa dimensione immaginativa. Se non ci sforziamo di capire che l’altro veramente può pensare in un modo per noi inconcepibile.
Ovviamente ancora peggiore è il fatto che incolpa i genitori morti annegati della morte dei loro figli, invece di riconoscere quello che è ovvio: che questa tragedia non è una tragedia, ma una missione compiuta. È stato detto che il barcone è stato avvistato sicuramente dalla Guardia Costiera, e che nessuno sia uscito in suo soccorso. Il fatto che il barcone sia stato lasciato affondare non è casuale, ma pianificato, è l’intento voluto dalle politiche attuali; non soltanto purtroppo dello stato italiano, ma in generale dell’Unione Europea nei confronti di persone che, seppure affrontino il mare per ragioni diverse, sono tutte spinte da un rapporto costi/benefici che fa vedere loro che è comunque più vantaggioso affrontare l’incertezza.
Questo ribaltamento di responsabilità secondo il quale la colpa è dei naufraghi e non di chi ha messo in atto una strategia per cui non ci sono più navi che facciano search and rescue, è il secondo fallimento dell’antropologia. Se non siamo riusciti a far capire a nessuno, quanto sia importante cercare di capire le vere motivazioni che ti spingono ad agire la riflessività e il punto di vista dell’Altro, beh, non so quanto spazio ci sia ancora per legittimare la nostra disciplina.
Ne parlo in questo video su instragram.
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