Perché Kami
I Kami sono delle figure metaumane dello shintoismo, la religione tradizionale del Giappone. Sono, detto alla buona, degli “spiriti” che possono essere associati alla natura, ma per la scelta di questo nome è stato importante sapere che anche uomini e donne reali, storici, possono diventare Kami dopo la morte, se ne incarnano la forza e ne perseguono i valori. I Kami sono allora un legame tra passato e presente, la garanzia di un fondamento di quel che facciamo oggi perché guidato, assistito e validato da coloro che, più grandi di noi, hanno vissuto prima di noi. Antenati, quindi, nel più ampio senso del termine.
Avremmo potuto chiamarci anche Lares, se non fosse che con quel nome esiste già, da oltre un secolo, una delle più importanti riviste italiane di antropologia. Ma Kami per noi è stata una scelta dovuta anche al fatto che in questo mondo “globale” (speriamo ancora per un po’…) non solo le merci e le persone circolano rapidamente, ma soprattutto le idee e, con quelle idee, i sistemi di valore. Proprio perché nessuno di noi (almeno per ora) ha origini giapponesi, assumere i Kami come nostri antenati sta a indicare la relativa libertà con cui possiamo “scegliere” il nostro passato, le nostre tradizioni.
Il motto che abbiamo posto alla base del nostro lavoro (Parva petunt Manes, i Mani si contentano di offerte modeste) viene invece dalla tradizione latina, in particolare dai Fasti di Ovidio. I Manes sono figure spirituali molto simili, funzionalmente, ai Kami giapponesi. Sono antenati che hanno acquisito qualità metaumane, divinità domestiche che si contentano di un poco di attenzione, di qualche piccola offerta alimentare. Ma vanno rispettati, perché i Manes, proprio come i Kami, hanno una duplice anima, e possono essere benevoli ma anche dispettosi, generosi nel sostegno ma anche provocatori senza apparente motivo.
Incarnano la natura fertile e assieme corrosiva della vita (anche e soprattutto, diremmo, della vita sociale), che può essere generosa e tiranna, benevola e malevola. Questa duplicità del vivente è proprio quello che vorremmo riportare nel mondo delle scienze sociali (che ultimamente a noi paiono insistere senza equità solo sui versanti negativi e disgreganti della convivenza strutturata), soprattutto attorno a tre spazi di ricerca e di riflessione.
Economia. Non crediamo affatto che lo scambio economico sia motivato solo dalla grettezza dei singoli o delle istituzioni cui prendono parte, e pensiamo invece che molte delle cose e dei servizi che circolano si realizzino per la naturale disposizione umana alla reciprocità e alla cooperazione. Vogliamo, come Kami, raccontare i molti spazi che gli umani sanno costruire per questo tipo di economia non ossessivamente competitiva, non centrata solo sul profitto, perché sappiamo (tutti noi lo sappiamo) che l’egoismo è solo una parte dell’animo umano.
Politica. Non crediamo affatto che il motivo per cui viviamo dentro istituzioni e comunque dentro sistemi strutturati e gerarchici dipenda solo dall’impulso prevaricatore del Potere, visto come sistema di controllo totale e radicale, finalizzato solo all’oppressione dei più deboli. Crediamo invece che la vita associata sia frutto di costanti trattative (materiali e simboliche) e che i diversi gruppi che costituiscono una società non siano sempre orientati alla competizione, ma sappiano, proprio attraverso la mediazione della politica (che per noi è la “vita associata”, la “vita nella polis”), impegnarsi per il bene comune.
Religione. Non abbiamo bisogno di essere credenti in una religione istituzionale (e neppure sostenitori di un vago deismo razionalista o emotivo) per riconoscere che le religioni, prima di essere sistemi di potere, prima di essere dirottate da questa o quella finalità politica o economica, sono dispositivi di senso, sistemi di orientamento nel mondo. Da questa prospettiva, guardiamo alle religioni come guardiamo alle filosofie e in generale ai quadri cosmologici: strumenti necessari alla nostra sopravvivenza. La dimensione simbolica della vita non è, per noi almeno, un eccesso sovrastrutturale, come non lo è il contatto fisico per un cucciolo della nostra specie. Crediamo quindi a una concezione definitivamente post-secolare della religione, liberandola dal pregiudizio razionalista e da quello fideista. Avere una religione non è tanto “credere”, ma piuttosto organizzarsi un sistema condiviso di pensiero e di azione orientato a uno scopo sentito come positivo. Avere una religione è avere argomenti per distinguere il bene dal male. Va da sé che, in questa prospettiva, le religioni (spontanee ma ancor più istituzionali) sono guardate con rispetto e sono considerate interlocutrici privilegiate nella nostra ricerca di senso.
L’intento finale, lo scopo che ci poniamo come Kami, è quello di riflettere ancora sul rapporto tra individuo e collettività: la società certo preme sugli individui, forzandoli ad essere a volte quel che loro non vorrebbero (anima malevola del Kami), ma la dimensione collettiva è anche uno strumento potentissimo di emancipazione, di evoluzione e affermazione di sé (anima benevola dei Kami). Siamo tutti costretti e predestinati a vivere in ambienti sociali che in parte ci sostengono, in parte ci reprimono, e non potremmo neppure immaginare (figuriamoci provare a realizzare) il nostro “vero sé” se non dentro quella struttura organizzata e comunque gerarchica che chiamiamo “società” e che si nutre di materia e segni, di bisogni e aspirazioni, in una parola di “cultura”. Per essere vitale, questo progetto deve ancorarsi a quel che è stato detto. Se la parola “tradizione” non vi piace, chiamatela sapere sedimentato, conoscenze implicite, saggezza incorporata. E che i Kami ci mostrino la via per una vita non certo felice (ma chi, davvero, può aspirare a una vita felice?) ma almeno alleggerita di tutto il male che non possiamo evitare e che rischiamo di generare gli uni contro gli altri.