«Non possiamo vivere se siamo deprivati del significato», per questo motivo raccontiamo storie e intrecciamo relazioni. Il quarto incontro di Leggere de Waal a Rebibbia ha trovato il suo centro nel dibattito (che riporteremo in pillole) sul concetto di libertà a partire dai dispositivi di significazione che adottiamo per costruire le nostre palafitte di significato.  

Il rapporto che sussiste tra l’ambiente e il significato è ciò che prende il nome di riflessività e che innesca un cambiamento profondo del sé: non è un salto momentaneo, un contributo di passaggio che scomparendo lascia tutto immutato dietro di sé. È un microscopico processo di semina che risignifica il modo di pensare sé stessi.  

Il carcere non lascia via di scampo rispetto a questa prerogativa del senso, riporta ciascuno di fronte a sé. Fuggire nella direzione opposta è un’alternativa che, se rimane ostinatamente presente, deve essere procrastinata alla distrazione imperante del mondo esterno. Si può dire che il carcere costringa alla riflessività e come sottolineato dal professor Vereni «lo scopo del seminario è anche raffinare insieme questa disposizione», rispetto alla complessità di ciò che siamo chiamati a comprendere. «La nostra umanità non è un salto, ma un cammino», che non procede semplicemente per “prove ed errori”, ma necessita in maniera imperativa della rappresentazione.  

Rappresentazione necessaria per entrare in contatto, tramite la ragione e l’immaginazione, con i pensieri dell’altro. Il pregiudizio stesso è funzionale alla narrazione, quando chiaramente non viene cristallizzato e trasformato in stereotipo. Viviamo in una condanna morale che stringe a doppio filo scelta e libertà, ci differenziamo per questo dai bonobo.

«Ma cos’è la libertà?».  

Le risposte si sono susseguite in maniera spontanea e forse a tratti randomica, ne riportiamo soltanto alcune:  

F.F.: «a differenza dei bonobo noi non siamo liberi perché siamo condizionati dalle regole»  

R.P.: «io penso esattamente il contrario: siamo liberi perché i bonobo sono costretti a seguire la loro natura»  

L.Z.: «per me la libertà è la solitudine. Da ragazzino in carcere trovavo la mia libertà addirittura nella cella di punizione» 

M.B: «è autonomia e indipendenza»  

L.F.: «una libertà assoluta non è possibile, perché viene limitata dalla società. Anche i bonobo hanno una regolamentazione, che non è diritto positivo, ma che limita comunque la loro libertà»  

S.V.: «è partecipazione». 

Proseguendo il confronto riguardo al concetto di libertà nel reparto di Alta Sicurezza, Vereni propone la medesima domanda rivolta alle persone detenute nei reparti di Media Sicurezza: «cosa possiamo considerare effettivamente libertà? Le parole, ad esempio, sono una creazione libera e individuale? In Le nuvole e i soldi, Tiziano Scarpa afferma che le abbiamo ereditate dai morti. Il rituale è adattivo, quindi consente la sopravvivenza, del rituale possiamo capire non il perché lo facciamo, ma per chi». Ma ciò che ereditiamo, compreso il comportamento rituale, è una gabbia che costringe oppure può diventare spazio di creazione e costruzione? Il legame stesso che sussiste tra pensiero e lingua è una gabbia, eppure non esisterebbe condivisione umana al di fuori di questo spazio e di conseguenza nemmeno libertà.  

 



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